parole…

“…Kechù immachèm devarìm veshuvu el Ha Shem ….”, “…Prendete con voi parole e tornate all’Eterno…”(Hoshea, 14; 3) abbiamo letto nella Haftarà dello scorso Shabbat Teshuvà, il primo Shabbat dell’anno nuovo, lo Shabbat fra Rosh Hashanà e Kippur. La nostra Teshuvà, il pentimento, il ritorno, deve cominciare dall’emendamento delle parole, perché la cultura della Torah, la cultura ebraica, è la cultura della parola. Solo se sapremo usarla nel modo giusto avremo la chiave per costruire noi stessi e una comunità basata sul rispetto concreto dell’altro.
Il momento del Giudizio riguarda anche, e direi soprattutto, questa area sconfinata del nostro comportamento verso il nostro prossimo. Accanto alle trasgressioni e alle omissioni di natura squisitamente religiosa, attinenti cioè all’ambito verticale della nostra vita che ci collega direttamente al divino, esistono spesso marcate trasgressioni ed omissioni di tipo più propriamente sociale ed umano che si riferiscono a quell’ambito della nostra esistenza che ci pone e talvolta ci contrappone agli altri. Quest’ultimo settore appare estremamente vulnerabile e delicato, perché vi si consumano, senza che spesso ce ne rendiamo conto, i peggiori errori e le più gravi trasgressioni.
Non è certo casuale che in una certa tradizione filosofica ebraica l’uomo venga indicato come “medabbèr”, “colui che parla”, poiché è l’uso della parola che distingue l’uomo dagli altri esseri. Il linguaggio è l’espressione dell’essenza dell’uomo e quando questo diventa espressione di rancore e malanimo si perde il senso della propria peculiarità.
La Tradizione rabbinica insegna che il giorno di Kippur, con la sua specifica santità, ha già in se stesso un potere di assoluzione. La sua forza di purificazione si applica però solo ai peccati commessi nei confronti dell’Eterno ma è inefficace per quelli commessi nei confronti del prossimo. Chiunque abbia commesso un torto nei confronti di un’altra persona, si trattasse anche solo di un danno morale, otterrà il perdono solo se preventivamente avrà confessato e riparato il torto commesso. Kippur è dunque un’occasione consacrata anche alla riconciliazione sociale. Abbiamo il dovere di riparare le fratture, il dovere di parlarci chiaramente, senza restare schiacciati dai rispettivi ruoli, superando sospetti e recriminazioni, il dovere di chiedere scusa, il dovere di avere un comportamento leale e corretto nei confronti dell’altro. Non possiamo iniziare a occuparci dei nostri bisogni spirituali se magari nello stesso Bet Hakeneset dove preghiamo di Yom Kippur ci sono persone con cui non parliamo o con cui ci guardiamo in cagnesco. Dobbiamo ripartire almeno da una parvenza di pace e di tranquillità sociale perché, altrimenti, la nostra conversazione con l’Eterno è viziata. La spiritualità di Israele nasce da questo.

Roberto Della Rocca, rabbino