Periscopio – Leggere
Molte volte, nella mia vita, ho avuto la sensazione di imparare, riguardo a qualche argomento, molto più dalla lettura di testi di narrativa e di fantasia (o anche, talvolta, attraverso la contemplazione di opere di arte figurativa, l’ascolto di musica ecc.) piuttosto che dallo studio di saggi di carattere scientifico. E ciò avviene, comprensibilmente, in misura tanto maggiore quanto più la natura della materia oggetto di comprensione sia, nella sua stessa essenza, magmatica, molteplice, problematica. Per imparare l’aritmetica, c’è poco da fare, occorrono libri di matematica (e, anche in questo caso, non proprio esclusivamente: avrei capito molto di più se, da bambino, avessi avuto modo di riflettere sulla frase di Erri De Luca secondo cui il numero “due” non è il doppio di “uno”, ma il suo contrario, in quanto superamento della solitudine); ma per capire, per esempio, cosa sia l’amore, la morte, il dolore, occorrono (oltre, ovviamente, alle lezioni della vita, per chi sappia apprenderle) pagine di poesia.
Scrivo questo perché credo di non avere mai appreso tanto, in tema di ebraismo, quanto mi è capitato di fare quest’estate, attraverso la lettura di due romanzi (il primo, di cui parlo oggi, non l’ho ancora finito) che non esito a inserire tra le opere di più alta forza espressiva che abbia mai avuto la fortuna di leggere. Tenevo, un po’ per scherzo, una personale classifica dei miei “top ten”, ma ora dovrò alzare il numero (non potendo, se non altro per motivi di affetto, declassare nessuno dei già inclusi). Ho detto la fortuna, ed è vero. Ma anche il peso e la sofferenza, trattandosi di due opere che riescono a catturare il lettore in un’autentica spirale di angoscia e tragedia. Due libri profondamente diversi, ma con molti punti in comune. Ebrei entrambi gli autori, abbastanza conosciuto, in Italia, il primo (è stato anche intervistato, di recente, da “Pagine Ebraiche”), molto meno il secondo. Ebraico, ebraicissimo il tema del primo romanzo, apparentemente no (ma solo apparentemente) il secondo. Entrambi capaci di coniugare in modo affascinante comicità e tragedia (con una netta prevalenza della seconda: credo di avere capito solo ora cosa sia, in realtà, il famoso umorismo ebraico). Entrambi mirabilmente tradotti in italiano dall’esperta mano di Milena Zemira Ciccimarra (che, certamente, avrà dovuto penare non poco per rendere nella nostra lingua sfumature, giochi di parole e neologismi di particolare complessità e originalità).
Il primo libro è “Kalooki nights”, dell’inglese Howard Jakobson (Ed. Cargo), un romanzo ambientato negli ambienti ebraici britannici del secondo dopoguerra, e incentrato sul tema di una ricerca e percezione identitaria vissuta in modo crudo, doloroso e lacerante. I fantasmi di un tremendo passato (che non può assolutamente essere definito tale: “Aman è vivo”), ricostruito da Jakobson in pagine assolutamente da incubo, inseguono senza tregua le generazioni degli scampati, spingendoli verso soluzioni estreme e disperanti. Il padre del protagonista incolpa gli stessi ebrei della responsabilità delle sofferenze da loro patite, e arriva a considerare lo stesso ebraismo, in ogni sua manifestazione, come una sorta di malattia, di maledizione, dalla quale si sforza con rabbia di liberare se stesso e i propri figli, attraverso la costruzione e l’imposizione di una cupa e intollerante “religione della non religione”. L’esito, ovviamente, sarà catastrofico. Riuscirà, attraverso una lunga lotta contro la moglie, a ottenere di evitare al figlio quella che ritiene la ridicola e superstiziosa cerimonia del “bar mitzvà” (simbolo della perpetuazione di un gioco millenario), ma con l’unico risultato di creare una specie di mostro, un “ebreo non ebreo”, “l’ebreo che non ha fatto il bar mitzvà”, per il quale la questione della proprio posto nel mondo diventa una specie di ossessione, un labirinto psicologico dal quale solo una maschera grottesca e paradossale potrà permettere, forse, di salvarsi.
Ma se l’ebraismo è profondamente intriso di un tenebroso “odio di sé”, non va meglio per i gentili, per i quali il contatto con gli ebrei pare diventare rivelatore di una propria intrinseca inadeguatezza, incompletezza. Gli ebrei sono coloro che nascondono un arcano segreto, che hanno una risposta magica a quella domanda di senso che accompagna e tormenta, da sempre, tutti gli uomini. Ma questo segreto gli ebrei non lo vogliono rivelare, la risposta non la vogliono dare, ed è inutile che continuino a giurare che non c’è, non la conoscono, perché ogni negazione è una confessione. Come si fa, perciò, a non odiarli? E come si fa a non interrogarli, e a non cercarli?
Francesco Lucrezi, storico
(27 settembre 2017)