Il vento di Kadye Molodowsky
Bereza Kartuska, lo shtetl natale vicino a Grodno, attuale Bielorussia. Odessa e Kiev, la formazione e l’iniziazione alle lettere. Varsavia tra le due guerre, l’insegnamento, la fioritura intellettuale, l’impegno politico e le poesie. Poi gli Stati Uniti dell’esilio e della salvezza. Gli anni nella neonata Israele, desiderata, amata e non trovata. Infine il ritorno a New York. “Sono una vagabonda” è la raccolta di liriche scelte di Kadye Molodowsky a cura di Alessandra Cambatzu e Sigrid Sohn (Free Ebrei 2017), un titolo che sintetizza la vita e l’opera della grande poetessa yiddish, che attraversa molti dei luoghi dell’anima della cultura ebraica novecentesca. La pubblicazione è anche un omaggio alla memoria di Alessandra Cambatzu, prematuramente scomparsa un anno fa, traduttrice di importanti opere di Moyshe Kulbak, Dov Ber Borochov, Kurt Tucholsky dallo yiddish all’italiano.
Kadye Molodowsky ha lavorato a lungo con i bambini, e sono proprio le poesie e le ballate per l’infanzia a darle una buona notorietà in Israele. Ancora oggi, però, le sue opere pagano il prezzo della lingua in cui sono state scritte, lo yiddish, a lungo identificata come idioma della diaspora, del ghetto, della Shoah – e dunque esclusa a vantaggio dell’ebraico, la lingua dei pionieri e del futuro. Forse è inevitabile, quando si costruisce, demolire quanto edificato da altri prima; ma si tratta pur sempre di una demolizione in cui molto va perduto. Kadye Molodowsky è stata una vagabonda, ha sottolineato Sarah Kaminski durante la presentazione del volume a Torino, eppure per tutta la vita è rimasta fedele alla propria identità, di cui la lingua è componente primaria. E la lingua di Kadye è lo yiddish ovvero, etimologicamente, la lingua degli ebrei.
Quello che più mi colpisce leggendo le poesie è il ruolo da protagonista della natura e dell’ambiente, e il dialogo che si crea tra questi e la poetessa. Nelle prime liriche, un po’ come nelle tele naif di Ilex Beller, la vitalità e il rigoglio della vita sono centrali:
“Qui la terra è pettinata dalla neve e dall’oblio, / nessuno scompiglia col passo la strada / riecheggia solo il grido di un venditore: / ‘Arance! Chi vuole delle arance?”.
Evidente è invece lo spaesamento negli anni in America: “Ma come possiamo fare senza Shlominke il fabbro? / (…) Darei tutta New York / per il galoppo familiare del suo carretto”.
“Dio misericordioso, / scegli un altro popolo, / intanto” è il grido all’indomani della Shoah, in cui il mondo della poetessa in esilio viene distrutto. E ancora: “Il vento ulula tra i nidi distrutti – / ferita e morte. / Le verdi praterie dell’infanzia / le mandrie di pecore – sono distrutte. / È rimasto solo re David, / con la corona in mano”.
Il vento torna nell’ultima raccolta, di incedere elegiaco; non è più il vento sui campi dello shtetl in gioventù, ma quello che si insinua nelle strade della grande metropoli straniera: “Il vento è diventato vecchio / (…) Solo due cose sono rimaste al vecchio vento: / la mendicante nella valle – nella cenere e nella polvere, / e la luna lassù in alto – la bianca, muta colomba”.
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei