Un Kippur di consapevolezza

Nella preghiera di Musaf di Rosh haShanà, di Yom Kippur e, secondo il minhag italiano persino di Osha’anà Rabbà, leggeremo un solenne pijut (una poesia liturgica) in cui è detto
“…utshuvà utfillà uzdakà ma’avirin et ro’a ha ghezerà – la teshuvà, la tefillà e la tzedakà hanno la forza di cambiare il cattivo decreto divino”.
Cosa sono queste tre azioni che hanno così tanto valore all’interno della vita di un ebreo da far cambiare idea al Signore Id-dio?
La teshuvà è l’elemento indispensabile per ottenere il perdono divino; questa, non è solo una cosa teorica (mi pento di aver fatto qualcosa), bensì rappresenta l’azione del pentirsi, che deve esser fatta attraverso le opere materiali, dimostrando a se stessi per primi, poi al prossimo e infine a D-o, di aver compreso l’errore che ci conduceva sulla strada sbagliata e che abbiamo intrapreso il cammino sulla retta via.
Nel brano di Torà che abbiamo letto nella parashà di Nizzavim troviamo scritto: “…ve shavtà ad A’ Elo-hekha – e tornerai al Signore D-o tuo”: tutto ciò che abbiamo detto deve esser fatto per rendere conto al Signore del nostro operato; è a Lui che alla fine di tutto dobbiamo presentare il bilancio delle nostre azioni, avendo il coraggio di non nascondere quelle meno buone”. Nella tradizione rabbinica questo comportamento, viene definito “Ben adam la macom – fra uomo e D-o”.
La tefillà è la preghiera fatta nel migliore dei modi partendo dal più profondo della nostra coscienza e cercando di salire sempre di più verso l’alto. L’elemento fondamentale della tefillà è la voce: lo sforzo che noi facciamo e le energie che adoperiamo nel recitare le tefillot debbono essere il mezzo indispensabile per frantumare quel muro che divide noi dal Signore D-o, facendo arrivare le nostre preghiere, fino al Suo “cuore”.
Essa è definita “Ben adam le azmò – Fra l’uomo e se stesso”
Anche lo shofar ha in un certo qual modo la stessa funzione della tefillà. Il termine “shofar” può anche esser fatto derivare dal verbo ebraico “le-shapper” che vuol dire “migliorare”; ossia il suo suono ha lo scopo di far migliorare il cuore degli uomini, le loro coscienze, per poter poi arrivare diretto al “cuore” di D-o migliorando anche il Suo verdetto verso di noi.
La tzedakà infine è l’opera di giustizia che ogni ebreo ha il dovere di fare nei confronti di chi ha bisogno; non è né elemosina né opera caritativa, bensì un’azione che ognuno di noi ha il dovere di fare nei confronti dell’altro: persino colui che è povero e vive miseramente ha il dovere di fare tzedakà.
La sua forza è quella di mettere sullo stesso piano chi la fa e chi la riceve, senza far sentire chi la riceve in una condizione di inferiorità verso chi l’ha donata; essa va fatta senza far conoscerne la fonte o l’origine.
Essa è definita: “Ben adam le chaverò – fra l’uomo e il suo prossimo”.
I Rabbini del Talmud riassumono questi concetti apparentemente astratti con tre termini che esprimono la massima materialità: Zom – Kol – Mamon – Digiuno – Voce – Denaro!
Sono queste le tre azioni più importanti della nostra vita, per ottenere il perdono divino e l’annullamento della sentenza cattiva contro di noi.
Tutto, quindi, ha come posta in gioco la vita, la nostra vita che è considerata il dono più importante che il Signore Iddio abbia fatto all’essere umano e a tutti gli altri esseri del Creato, proprio quel Creato che noi celebriamo in questa giornata; opera creativa che il Signore con tutta la Sua grande bontà e giustizia ha fatto affinché l’uomo potesse essere al centro della terra per curarla, sentendola una cosa propria.
Gmar chatimà tovà!

Rav Alberto Sermoneta

(29 settembre 2017)