Diritti e doveri del matrimonio,
la parola alle Ketubbot romane
La prima forma di tutela della donna nell’ebraismo, che all’unione tra marito e moglie attribuisce una funzione centrale (“Non è bene per l’uomo essere solo” dice la Genesi). Ma anche un modo diverso, una prospettiva più originale per guardare alla storia degli ebrei italiani nelle loro complesse vicende spazio-temporali. Sono le ketubbot, i contratti matrimoniali stipulati in occasione dello sposalizio, ad animare la mostra “Concordia maritale” inaugurata al Museo ebraico di Roma.
Realizzata grazie al sostegno di Poste Italiane, curata dalla studiosa Olga Melasecchi e introdotta dal rabbino capo rav Riccardo Di Segni, che ha illustrato storia e specificità dei diversi contratti in uso nel corso dei secoli (a Roma e non solo), la mostra porta all’attenzione del pubblico un’antica collezione di esemplari che non ha mancato di suscitare interesse ed emozione. E insieme immagini fotografiche di matrimoni d’epoca, documenti d’archivio, libri di preghiera.
Ottantasei in tutto i contratti di matrimonio in pregiata pergamena di pecora, scritti a mano e decorati all’acquarello, conservati presso il museo e l’archivio comunitario. Tra i punti di forza della mostra, 11 Ketubbot di famiglia ritrovate e attentamente studiate da Celeste Pavoncello Piperno e Giovanna Grenga. Il loro dono, per il museo, “è testimonianza non solo del forte legame con la tradizione, ma anche della fiducia conferita al museo, che è diventato lo scrigno della memoria ebraica a Roma”. Suggestivo al riguardo l’itinerario tracciato nell’allestimento, presentato al pubblico anche dalla presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello e dall’amministratore delegato di Poste italiane Matteo Del Fante. In primo piano ketubbah romana, una vera e propria arte che raggiunse l’apice del suo splendore nell’epoca del ghetto. Spicca tra gli altri un esemplare del 1627, concesso eccezionalmente in prestito dal Museo Israel di Gerusalemme. Vi si celebra il matrimonio di una delle figlie del banchiere della famiglia Toscano. Al centro del contratto un elegante portale sostenuto da quattro colonne, sormontato da una menorà dorata. Ancora più in alto, una visione di Gerusalemme.
È dalla prima metà del 18esimo secolo, è stato spiegato ieri, che l’arte della ketubbah raggiunse a Roma i massimi livelli di perfezionamento. Tra i motivi maggiormente ricorrenti nelle raffigurazioni proposte scene bibliche e figure allegoriche personificate, oltre a scene e figure mitologiche. Caratteristiche iconografiche queste che sono peculiari delle ketubbot romane. Forse poco consone alla tradizione ebraica, “ma diffusissime nella Roma barocca, ad ulteriore dimostrazione della continua osmosi tra il ghetto e il resto della città”.
Il valore sociale delle ketubbot all’epoca era altissimo. Attraverso di esse infatti le famiglie “non solo manifestavano il proprio status, ma spessissimo celebravano anche momenti esaltanti di libertà”. Numerosi, tra gli 86 contratti conservati a Roma, sono decorati con i colori della bandiera francese (risalenti dunque al favorevole periodo della dominazione napoleonica a Roma). Molti ancora quelli con i colori della bandiera italiana, databili al periodo dell’emancipazione, quando con l’Unità d’Italia, e soprattutto con la fine del potere temporale dei papi e l’abolizione definitiva del ghetto, gli ebrei romani venivano finalmente equiparati agli altri loro concittadini.
Per meglio illustrare il fasto della cerimonia di matrimonio, all’interno della mostra è stata allestita anche una chuppah, il baldacchino, che rappresenta la coabitazione della nuova coppia, con i manti nuziali e gli altri ornamenti dedicati.
(3 ottobre 2017)