IDENTITÀ Ebraico, lingua sacra e lingua viva

ebraico 1Il valore speciale della lingua ebraica e l’importanza per il popolo ebraico di mantenerla nell’uso corrente sono ampiamente evidenziati in diversi insegnamenti dei Maestri. L’ebraico è ovviamente definito innanzitutto nella sua qualità di lingua sacra “leshon ha qodesh”. Ramban (R. Moshe ben Nachman) spiega che questa definizione si deve al fatto che l’ebraico è la lingua con la quale D.O ha creato il mondo, è la lingua della Torah e dei profeti d’Israele, gli stessi Nomi con i quali D.O si manifesta sono espressioni della lingua ebraica (Commento alla Torah su Esodo 30,13). Il carattere assolutamente particolare dell’ebraico come lingua sacra è stato ampiamente sviluppato da R. Yehudah Ha- Levì nel “Sefer Ha-kuzarì”. Egli introduce anche delle considerazioni attraverso le quali traccia il nesso tra la lingua ebraica e la storia del popolo d’Israele: in un sintetico excursus sulla continuità dell’ebraico dalle origini dell’umanità nel racconto biblico fino ad Abramo, Yehudah Halevi afferma che il primo patriarca si esprimeva in aramaico nella prassi della vita quotidiana mentre l’ebraico era per lui lingua sacra, destinata alla vita spirituale. In questa suddivisione troviamo quindi esplicitata quella distinzione, che poi si sarebbe ampiamente diffusa, tra lingua parlata – espressione della civiltà locale in mezzo alla quale gli ebrei si sono trovati a vivere, e lingua ebraica, utilizzata per la vita religiosa. Il grande autore del Kuzarì tratteggia poi la forza vitale dell’ebraico, quale è dato riscontrare nella Bibbia, in cui questa lingua è in grado di esprimere con precisione e forza espressiva gli argomenti più diversi, dalla narrazione alla poesia, dalle argomentazioni di Giobbe ai più minuti particolari del Tabernacolo (Mishkan) e degli oggetti sacri, rispetto all’impoverimento subito dalla lingua ebraica, in un processo parallelo alla condizione di decadenza e sofferenza del popolo ebraico. Rispetto a questa desolata constatazione della decadenza dell’ebraico nella diaspora, troviamo d’altra parte alcune fonti rabbiniche che sottolineano proprio il valore straordinario dell’ebraico quale espressione di identità per il popolo d’Israele quando vive lontano dalla propria terra di origine, un midrash identifica nella capacità di mantenere la propria lingua, anche nella penosa condizione di schiavitù in Egitto, uno dei meriti che valsero ai figli d’Israele l’intervento di redenzione da parte del Signore: ”Rav Unnà insegna a nome di Bar Kapparà: grazie a quattro meriti i figli d‘Israele sono stati liberati dalla schiavitù in Egitto: per non aver cambiato i loro nomi e la lingua parlata, per non aver pronunciato calunnie e per non aver trasgredito le norme sulle relazioni proibite (Vaikrà Rabbà 32); è interessante notare come la conservazione dell’uso corrente della lingua ebraica venga interpretata dal midrash quale forte affermazione dell’identità collettiva, che attraverso questi segni essenziali resiste non solo alla condizione di estrema sofferenza della schiavitù ma anche in presenza di una grave decadenza dei valori religiosi, come segnalato da altri midrashim, che descrivono il progressivo cedimento degli ebrei in kuzari-072309-1425723402Egitto verso pratiche idolatriche, ad imitazione della popolazione locale. Essendo lo studio della Torah uno dei valori fondamentali dell’ebraismo, ne consegue ovviamente la necessità di imparare fin da piccoli la lingua ebraica; il midrash normativo del Sifrè, interpretando un passo del libro di Devarim, (particolarmente noto in quanto parte del secondo brano dello Shemà) ne attribuisce esplicitamente il compito al padre: “Le Insegnerete ai vostri figli parlandone (Deut.11,19) – Per questo è stato detto – Dal momento che il figlio è in grado di esprimersi con la parola, il padre deve parlare con lui nella lingua santa e gli deve insegnare la Torah..”. Nel suo commento in loco alla Torah, Rashì (R. Shelomò ben Izhak) riporta questo midrash normativo con una piccola variazione, per indicare l’obbligo del padre di parlare in ebraico con il figlio usa il termine “ mesiach”, che rappresenta il semplice discorrere tra padre e figlio, la conversazione nella vita quotidiana, non solo l’utilizzo della lingua legato allo studio della Torah. È anche interessante notare che questo richiamo al dovere di insegnare la lingua ebraica viene individuato in un passo che – secondo l’interpretazione del midrash ripresa anche da Rashì – fa riferimento alla condizione diasporica del popolo d’Israele, in un certo senso ricollegandosi allo stesso concetto del valore dell’ebraico come garanzia di identità, che abbiamo visto già ricondotto alle origini della storia d’Israele in Egitto. Il carattere normativo – di vera e propria Mizvah – è affermato da Maimonide in relazione ad un insegnamento dottrinale della Mishnà, nel trattato di Avot (2,1), in cui si ribadisce l’obbligo di adempiere a tutti i precetti con la medesima solerzia, senza fare distinzione tra comandamenti considerati più gravi rispetto ad altri ritenuti più lievi; tra i precetti che potrebbero essere ritenuti di minore impegno, Maimonide cita proprio “lo studio della lingua santa e la letizia nei giorni delle tre feste di pellegrinaggio”. Malgrado questi ampi riconoscimenti del valore spirituale della lingua ebraica, malgrado l’attestazione di Maimonide, non risulta tuttavia che lo studio dell’ebraico sia stato effettivamente codificato nell’ambito dei 613 precetti, così pure l’esplicita proibizione di esprimersi in altra lingua, citata nel Talmud Yerushalmì (Shabbat 1,4) nel novero di diversi provvedimenti adottati, su iniziativa della più rigorosa Scuola di Shammay, per evitare rapporti troppo confidenziali con i popoli pagani, non è riportata nel passo parallelo del Talmud babilonese e non ha avuto seguito nella codificazione normativa; è probabile, come spiega R. Baruch Halevì Epstein (nel commento denominato Torah Temimah al passo citato di Deut. 11,19,) che la condizione diasporica sia considerata di fatto un impedimento non superabile per la maggior parte degli ebrei rispetto all’imposizione della lingua ebraica quale vero e proprio precetto. Registriamo inoltre tra i Maestri pareri divergenti relativamente alla stessa sacralità dell’ebraico, ovvero se questa lingua debba essere considerata sacra di per se stessa o solo quando viene utilizzata a scopo religioso. Nel contesto di una discussione di carattere normativo, relativa alla liceità di consultare testi profani di sabato a seconda che siano scritti in ebraico o in altra lingua (Shulchan Arukh, Orach Chaym 307,15), troviamo l’affermazione categorica di R. David Halevi Segal (noto come Turè Zahav, Polonia, 17° sec.) che sentenzia: “L’ebraico di per sé non riveste carattere di sacralità”, laddove R. Avraham Gombiner (noto come Maghen Avraham, contemporaneo del precedente) esprime invece parere affermativo sul carattere di sacralità intrinseca dell’ebraico. Questa divergenza era destinata a non rimanere puramente accademica o circoscritta ad alcuni casi specifici. Sappiamo come il ritorno alla Terra d’Israele attraverso il sionismo sia stato interpretato nell’ebraismo religioso in modi anche diametralmente opposti, dando vita, da un lato alla corrente del sionismo religioso che considera il rinascimento di uno stato nazionale ebraico quale prima sia pure tenue manifestazione della fioritura messianica, dall’altro a prese di distanza negative, fino al rifiuto categorico dell’identità nazionale, considerata un’aperta violazione dell’attesa messianica riconducibile esclusivamente all’intervento divino. In questo contesto di disputa ideologica, anche la rinascita dell’ebraico nell’uso corrente della vita quotidiana viene letta dagli uni come segno, per certi versi miracoloso, della straordinaria trasformazione della vita del popolo ebraico, da una condizione totalmente diasporica al ritorno all’identità nazionale, quindi una tappa importante nel percorso, che in quest’ottica si scorge, di realizzazione delle promesse messianiche; viceversa nel settore opposto si rivendica il carattere prioritario dell’ebraico come lingua sacra, destinata esclusivamente alla vita religiosa che non deve essere contaminata da discorsi e circostanze impure. Una valutazione della lingua ebraica che tiene conto di diversi punti di vista è stata espressa da Rav Avraham Izhak Ha-Cohen Kook, che è stato di fatto l’ideologo e la voce più alta del sionismo religioso: “Pur essendo presente nella lingua sacra un carattere intrinseco di santità, tuttavia questa peculiarità si manifesta essenzialmente attraverso il contenuto, prova ne sia che è consentito parlare ( in ebraico) di argomenti profani anche in luoghi nei quali (per l’uso del locale o per mancanza di condizioni igieniche) non è consentito conversare di argomenti di Torah; sussiste però una speciale predilezione per l’ebraico, in quanto essa è la nostra lingua nazionale ed è attraverso di essa che si esprime l’affetto (di D.O) verso il nostro popolo”. Penso che nel momento in cui riflettiamo sul valore della lingua ebraica quale mezzo per rafforzare la nostra identità ebraica nel contesto concreto delle nostre comunità, dobbiamo recepire qualcosa di questi diversi stimoli, anche quando ci giungono da settori diversi; la lingua ebraica è certamente uno strumento essenziale per conservare le nostre peculiarità identitarie, per accedere direttamente, in modo attivo e consapevole, ai testi sacri e alle preghiere ma anche alle espressioni della moderna letteratura ebraica, dei giornali e dell’informazione d’Israele, uno strumento quindi che, come ai tempi del primo galut in Egitto, ci aiuta a mantenere l’ebraismo anche quando si affievolisce il sentimento religioso; la conoscenza dell’ebraico è un modo per esprimere il nostro forte legame con lo stato d’Israele, collocandoci nell’ambito del sentimento condiviso dalla maggior parte del pubblico delle nostre comunità, o per lo meno non apertamente contestato, nello spirito per cui ogni shabbat viene recitata nelle nostre sinagoghe la preghiera che definisce Israele come “Reshit zemichat gheulatenu – Inizio della fioritura della nostra redenzione”. E tuttavia dobbiamo cogliere anche una parte della sollecitazione che ci giunge dal settore opposto, che ci ricorda che l’ebraico non è una lingua come ogni altra, proprio perché esprime la nostra identità spirituale e che parte essenziale del nostro essere ebrei è la consapevolezza di non poter essere un popolo come tutti gli altri, ma di avere compiti e ruoli specifici da assolvere. La sintesi di queste diverse esigenze appare, a mio giudizio, in un commento di Rav Moshe Ehrenreich (direttore del Machon Eretz Chemdah di Gerusalemme), secondo il quale è possibile che Maimonide abbia collegato il precetto dell’insegnamento dell’ebraico a quello del Talmud Torah (Mishnè Torah, norme sullo studio della Torah 1,6), proprio per insegnarci che il miglior metodo per insegnare l’ebraico è quello che utilizza passi della Torah. Dunque, insegnare ebraico come lingua viva ma anche come espressione della santità e della ricchezza spirituale della Torah. La difficoltà di mantenere nella lontananza dalla terra d’Israele un pieno uso dell’ebraico nella vita quotidiana, ci ricorda che la condizione diasporica è di per se stessa una forma incompleta di ebraismo, indipendentemente dallo stesso livello di vita religiosa e di impegno ebraico nelle nostre comunità ed indipendentemente anche dalla situazione contingente in cui ci troviamo, tuttavia lo sforzo di conservare la lingua ebraica è tuttora, come alle origini, un essenziale segno di vitalità e di resistenza spirituale e culturale per le comunità ebraiche.

Giuseppe Momigliano, Rabbino capo di Genova e Consigliere UCEI
Pagine Ebraiche, settembre 2017