STORIA Il calvario della Turchia
Sean McMeekin / IL CROLLO DELL’IMPERO OTTOMANO / Einaudi
Quando nel 1923, dopo oltre 11 anni di guerra, scese la pace sugli ex possedimenti ottomani, fu difficile calcolare il numero delle vittime. Quattro o cinquecentomila soldati erano morti nel corso della Prima guerra mondiale. I morti, però, furono molti di più. La popolazione che abitava in terra turca prima del 1911 ammontava a 21 milioni di persone. Nel 1923 si era ridotta a meno di 17 milioni. Uno degli imperi che la Grande guerra portò via con sé fu quello ottomano. Ma il mondo arabo nei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale non era affatto stabile. Era forse meno violento di come sarebbe stato nella versione postbellica posta sotto la tutela anglofrancese, però in luoghi come la Mesopotamia, la sovranità ottomana nel 1914 «era per lo più una finzione, anche se probabilmente utile e costruttiva». Così Sean McMeekin in Il crollo dell’Impero ottomano. La guerra, la rivoluzione e la nascita del moderno Medio Oriente 1908-1923, che esce oggi per Einaudi nell’eccellente traduzione di Daniele Cianfriglia e Chiara Veltri. L’Impero ottomano era durato per più di sei secoli prima di naufragare nella guerra del 1914-18. Dal 1517 al 1924 (tranne un breve interregno, dal 1802 al 1813, in cui gli insorti wahhabiti erano saliti al potere) i sultani avevano dominato i luoghi sacri islamici dell’Arabia, «legittimandosi, agli occhi dei fedeli musulmani, come califfi dell’islam». In cambio di questa legittimazione, i sultani ottomani avevano offerto ai sudditi «un’identità comune e l’orgoglio di appartenere a un grande impero, un orgoglio provato soprattutto dai musulmani ma condiviso anche, in qualche misura, dalle vaste minoranze ebraica e cristiana dell’impero, la cui protezione dipendeva dal sultano». Poi venne la guerra. Per quel che concerne il discorso sulle persone «scomparse» tra il 1911 e il 1923, i numeri, per McMeekin, sono calcolati con «rozze approssimazioni» e «non è chiaro quale sia il dato dell’emigrazione a fronte di quello delle perdite dovute a malattie, denutrizione e altre cause più direttamente legate al conflitto». Si tende però a «concordare sul fatto che i tassi di mortalità per l’impero nel suo complesso si avvicinarono al venti per cento, un numero sconvolgente se lo si confronta ai peggiori dati pro capite sul fronte occidentale che videro la Francia perdere il 13,5 per cento». I «nudi numeri dei morti e feriti» raccontano poi solo «una piccola parte della terribile guerra ottomana». Interi popoli, «in alcuni casi intere nazioni, furono sradicate da case in cui vivevano da secoli, insieme a tutto il loro stile di vita». Qual era lo stato di quell’area in quel determinato momento? L’arrivo nella regione «di diplomatici, ingegneri e uomini d’affari europei era in corso da tempo e probabilmente avrebbe proiettato Palestina, Siria e Mesopotamia nell’orbita occidentale anche senza una guerra tra grandi potenze», mentre la Russia stava gradualmente conquistando la Turchia orientale e la Persia settentrionale. L’Impero ottomano aveva già perso l’Africa nella «guerra di Libia» (1911) e parte rilevante della Rumelia (i suoi possedimenti europei) nelle guerre balcaniche, insieme alla maggioranza delle isole dell’Egeo e del Dodecaneso. La decisione dei turchi di entrare in guerra nel 1914, scrive McMeekin, «si può interpretare come l’ultimo rantolante tentativo di prevenire il declino e la spartizione sfruttando la forza tedesca contro le potenze più pericolose che avevano mire sul territorio ottomano: la Russia, la Gran Bretagna e la Francia (grossomodo in quest’ordine)». Anche se gli Imperi centrali avessero vinto la guerra, come si illusero che potesse accadere allorché ottennero a Brest-Litovsk la resa della Russia bolscevica, prosegue lo storico, «una Germania vittoriosa probabilmente sarebbe finita in una posizione mandataria di supervisione dell’amministrazione e dell’economia turche». E persino in quel caso, «una Gran Bretagna pseudo-vittoriosa avrebbe potuto prendersi la Palestina, la Mesopotamia e la Siria ottomane in cambio dell’accettazione della posizione tedesca in Russia e Ucraina». Ragione per cui si può sostenere con McMeekin che «non esisteva uno scenario realistico in cui all’impero sarebbe stato possibile continuare a durare a tempo indeterminato in una specie di status quo ante». All’epoca si prospettavano solo «opzioni peggiorative». E si può dire che tutto sommato fu saggia la scelta di Mustafa Kemal Atatürk di abbandonare l’impero ingovernabile a favore di uno Stato-nazione che i suoi uomini nuovi avrebbero potuto gestire «con mano ferma». Non furono in quell’occasione solo il sultanato e il califfato ottomani a scomparire dalla faccia della terra. L’impero stesso, «dopo essere sopravvissuto a un assalto dietro l’altro nel corso di secoli, venne infine fatto a pezzi e mai più riassemblato». E se è vero che «tutti gli imperi producono caos e miseria quando crollano, oltre alle lamentele per un’età dell’oro di cosmopolitismo perduta e per uno spirito di tolleranza immaginario», va detto anche che, così come il crollo degli imperi degli Asburgo e degli Hohenzollern produsse un’era di intolleranza e di antisemitismo nell’Europa centrale, la caduta degli ottomani diede il via a un periodo di enormi problemi in Medio Oriente. In tutto il «caos cartografico» prodotto dalla Prima guerra mondiale, un fatto curioso è che sia i confini più duraturi sia quelli meno stabili furono tracciati nell’ex Impero ottomano. La «fragilità dell’insediamento postbellico nel Medio Oriente arabo è diventata un trito cliché negli ultimi anni, e l’ascesa dello Stato islamico nei territori della Siria e dell’Iraq è soltanto la più recente perturbazione». Di queste perturbazioni che hanno sconvolto le immense terre che rimasero fuori dai confini turchi, è consuetudine far risalire le colpe a Mark Sykes e Georges Picot, i due negoziatori (inglese il primo, francese l’altro) che nel 1916 per conto dei rispettivi governi tracciarono le linee di spartizione di quell’area. Lo ha fatto qualche tempo fa Patrick Cockburn sulla «London Review of Books» e, dopo di lui, un’infinità di uomini politici, analisti e commentatori. Quello dell’«accordo Sykes-Picot», lamenta McMeekin, «è divenuto un cliché, una formula abbreviata ormai sulla bocca di tutti, usata per spiegare la più recente rivolta in Medio Oriente». A giudicare dall’onnipresenza dei riferimenti nei media si potrebbe pensare che i due siano stati «gli unici attori di rilievo sul teatro ottomano della Prima guerra mondiale», e la Gran Bretagna assieme alla Francia la sola parte decisiva nella decisione delle sorti del territorio ottomano. Una tesi che già all’inizio degli Anni Sessanta faceva capolino nel film di David Lean Lawrence d’Arabia. Tra l’altro, osserva lo storico, «non è difficile comprendere la risonanza popolare della leggenda dell’accordo Sykes-Picot» dal momento che «nella nostra epoca postcoloniale, l’imperialismo e gli imperialisti, sepolti da tempo, sono facili bersagli su cui scaricare le responsabilità dei problemi odierni». Sykes e Picot, secondo questa vulgata, sarebbero la personificazione dei «peccati della Gran Bretagna e della Francia, il cui progetto di espansione coloniale, già in atto da secoli, raggiunse l’apogeo finale con l’apposizione della Union Jack e del tricolore francese nel Medio Oriente arabo, dove da allora ogni cosa cominciò ad andare male». Inoltre, il sostegno della Gran Bretagna ai progetti sionisti con la dichiarazione Balfour del 1917, sarebbe stato «in questa drammatica vicenda di hybris e nemesis», un «passo troppo lungo» che avrebbe «risvegliato gli arabi da un sonno di secoli» e li avrebbe spinti a «insorgere contro i crociati contemporanei — europei e israeliani — che avevano sottratto le loro terre». Sicché tutto quel che riguarda i movimenti panislamici, la Fratellanza musulmana, Hamas, Hezbollah, Al Qaeda, Daesh e ogni nuovo gruppo che si proporrà di «cancellare i confini artificiali imposti dall’Europa», avrà in comune con gli altri il desiderio di «assestare il colpo di grazia sull’accordo Sykes-Picot». Ma la sintesi dell’accordo Sykes-Picot proposta da queste versioni del passato mediorientale ha, secondo McMeekin, «ben poco in comune con la storia su cui teoricamente si basa». La spartizione dell’Impero ottomano «non fu decisa bilateralmente da due diplomatici, uno britannico e uno francese, nel 1916, bensì in una conferenza di pace internazionale tenuta a Losanna, in Svizzera, nel 1923, all’indomani di un conflitto che era durato quasi dodici anni e risaliva all’invasione italiana della Tripoli ottomana nel 1911 e alle due guerre balcaniche del 1912-13». Quasi dodici anni e non poco più di quattro, quanti ne durò la Prima guerra mondiale. e Sykes, né Picot «svolsero alcun ruolo degno di nota a Losanna, dove la figura dominante che incombette sui lavori fu quella di Mustafa Kemal, il nazionalista turco le cui armate avevano appena sconfitto la Grecia e (per estensione) la Gran Bretagna, nell’ennesimo conflitto durato dal 1919 al 1922». Persino nel 1916, «d’anno in teoria passato alla storia per il loro accordo segreto sulla spartizione, Sykes e Picot ebbero un ruolo secondario rispetto al ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov che era ormai la vera forza trainante dietro la divisione dell’Impero ottomano, in tutto e per tutto un progetto russo». Progetto russo «riconosciuto come tale dai britannici e dai francesi quando fu chiesto loro di dare il proprio consenso al piano per la spartizione, già tra il marzo e l’aprile del 1915». L’accordo del 1916, poi, non conteneva neppure un accenno alla dinastia saudita che, dopo la conquista delle città sacre La Mecca e Medina, avrebbe formalmente governato l’Arabia ottomana dal 1924 È ora di dire apertamente che nessuno dei «più famigerati confini postottomani — quelli che separano la Palestina dalla (Trans)Giordania e dalla Siria, o la Siria dall’Iraq, o l’Iraq dal Kuwait — fu tratteggiato da Sykes e Picot nel 1916». Nessuno. Perfino i confini che i due funzionari delinearono, come quelli che avrebbero separato la zona britannica, francese e russa in Mesopotamia e in Persia, «furono scartati dopo la guerra». Mosul, in Iraq, è il caso più celebre: fu prima assegnata ai francesi, finché gli inglesi non decisero che volevano i suoi campi petroliferi. Dopo che i russi siglarono una pace separata con i tedeschi a Brest-Litovsk, nel 1918, la zona che sarebbe spettata agli stessi russi secondo i patti del 1916, «venne dapprima sottratta e poi eliminata dalla memoria storica». Coloro che oggi scrivono di Medio Oriente, secondo McMeekin, «non sbagliano a ricercare le radici dei problemi attuali di quell’area nella storia di inizio Novecento». Ma «i veri eventi storici sono più ricchi e di gran lunga più drammatici del mito». Perciò si dovrebbe «andare oltre il mito dell’accordo Sykes-Picot se si vuole comprendere l’impatto della Prima guerra mondiale su questa vasta regione, su cui essa ha lasciato tracce tangibili, da Gallipoli ad Erzurum, da Gaza a Baghdad». I fronti ottomani si estesero su «tre continenti e tre oceani coinvolgendo non solo la Gran Bretagna e la Francia ma tutte le altre grandi potenze europee (e alcune più piccole) oltre ovviamente agli ottomani stessi». Così, anche se coloro che «danno la colpa» a Gran Bretagna e Francia per il conflitto infinito in Palestina, Libano e Siria «presentano delle argomentazioni plausibili» — nel senso che l’antichissima politica imperiale del divide et impera, applicata a una regione già frammentata, «contribuì a esacerbare le tensioni esistenti tra arabi ed ebrei, cristiani e musulmani, musulmani sunniti e sciiti» —, tutto questo non basta. Chi ricorre a quelle argomentazioni, dovrebbe ricordare che le potenze d’occupazione ritirarono le ultime truppe dalla regione nel 1946 e 1947, in tempi precedenti allo scoppio della prima guerra arabo-israeliana. Il teatro ottomano, «lungi dall’essere ai margini della Prima guerra mondiale, fu centrale sia per lo scoppio del conflitto europeo nel 1914, sia per l’accordo di pace che vi pose davvero fine». La «guerra di successione ottomana» come potremmo chiamare il più ampio conflitto dal 1911 al 1923, fu una battaglia epica come si comprende dalle «figure leggendarie» che la resero celebre. E qui McMeekin elenca le principali: Ismail Enver, Ahmed Cemal e Mehmed Talat, il triumvirato dei «Giovani Turchi»; sul versante tedesco il Kaiser Guglielmo II, l’ammiraglio Wilhelm Souchon e Otto Liman von Sanders; su quello britannico Horatio Kitchener, Winston Churchill, T.E. Lawrence e David Lloyd George; Sergej Sazonov, il granduca Nicola, Nikolaj Judenic e Aleksandr Kolchak in Russia; al-Husayn, sceriffo della Mecca e i suoi figli Faysal e Abd Allah insieme a Ibn Saud in Arabia; Eleftherios Venizelos e re Costantino in Grecia; e, «non ultimi», Kazir Karabekir, Ismet Inonu e Mustafa Kemal, padri della Repubblica turca. Altro che Sykes e Picot con quello che simboleggiano e che ancor oggi, con una buona dose di semplificazione, si fa a loro risalire. Personaggi che quasi scompaiono al cospetto dei giganti di cui qui si è tracciato un primo, provvisorio, elenco.
Paolo Mieli, Corriere della Sera, 3 ottobre 2017