Nathan Ben Horin (1921-2017)

Durante la festa di Sukkot, il 20 di Tishrì (10 ottobre) si è spento a Gerusalemme, dopo una lunga e intensa vita spesa in buona parte tra Israele e l’Italia, Nathan Ben Horin, diplomatico, fine studioso e membro della commissione dei Giusti allo Yad Vashem: una personalità che ha lasciato il segno, non ultimo quello della sua squisita umanità, ad un tempo mite e determinata, dolce e dotata di forte senso critico. Nato a Wiesdaben nel 1921 (luogo e anno dei famosi trattati sui danni di guerra che la Germania doveva pagare), si trasferì presto con la famiglia in Francia, dove entrò nelle fila della resistenza ebraica al nazismo. Alla fine del 1944 riuscì a immigrare in Palestina e alla nascita dello Stato di Israele subito si arruolò nell’esercito di difesa del suo nuovo stato. Combatté nella guerra d’indipendenza (1948-49) durante la quale venne gravemente ferito (ogni volta che all’aeroporto di Tel Aviv passava per il metal detector, questo suonava e segnalava la presenza del metallo interno, che gli avevano messo dopo l’operazione del ’49). Negli anni Cinquanta iniziò a lavorare al Ministero degli Esteri, e già nel 1961 è inviato a Roma come attaché culturale, al seguito dell’ambasciatore Maurice Fischer che era particolarmente sensibile ai rapporti interreligiosi tra le fedi monoteiste. Nathan fu contagiato da questa apertura mentale e sviluppò in proprio e in modo originale questa sensibilità: era l’anno dell’annuncio del Concilio Vaticano II. Nathan Ben Horin seguì da vicino i dibattiti e i lavori del concilio, assistendo ai profondi cambiamenti della chiesa cattolica in materia di rapporti con l’ebraismo. Ebbe poi, come diplomatico, altre missioni all’estero, ma nel 1980 fu nominato ministro plenipotenziario dell’ambasciata di Israele in Italia per i rapporti con la Santa Sede (dato che il Vaticano ancora non aveva contatti diplomatici ufficiali con Israele). Racconta lui stesso: “Avevo avuto da un membro della direzione del mio Ministero il consiglio di non occuparmi di questioni teologiche nel mio lavoro e di astenermi dal dialogo ebraico-cristiano, che era di competenza della comunità ebraica locale. Ma non avevo alcuna intenzione di seguire questo consiglio, e ciò per la buona ragione che, prima di essere israeliano, sono ebreo”. Questo era l’uomo, che ebbe profondi legami di amicizia con molti uomini di chiesa (cardinali come Etchegaray e Martini, e figure carismatiche come padre Benedetto Calati di Camaldoli, Maria Vingiani del SAE e Maria Baxiu della rivista Sefer, per citarne solo alcuni). Andato in pensione, nel 1994 viene nominato membro della Commissione per la designazione del titolo “Giusto fra le nazioni” dell’Istituto Yad vaShem, ruolo che svolge con estremo scrupolo, mentre, insieme alla moglie Mirjam Viterbi, a sua volta pioniera del dialogo ebraico-cristiano, apriva la sua casa di Gerusalemme a molti studiosi e visitatori di Israele, sia ebrei sia cristiani. Un’antologia di suoi interventi e contributi storico-teologici è stata pubblicata nel 2011 con il titolo “Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani” (a cura di Piero Stefani, Edizioni Messaggero, Padova). Negli ultimi anni ha scritto in ebraico una ponderosa e ponderata storia dei complessi rapporti tra mondo cattolico, movimento sionista e stato di Israele, che speriamo trovi presto un editore. Nathan Ben Horin è sepolto nel kibbutz Kiriat Anavim. Il suo ricordo e la sua opera siano di benedizione.

Massimo Giuliani