Volontà senza responsabilità
Un tempo si sarebbe detto che “dio lo vuole!” (il minuscolo è d’obbligo), trattandosi dell’invocazione con la quale si legittimava tutto, in genere quasi sempre il peggio. Oggi la legittimazione divina si scomoda perlopiù a corredo di un’altra affermazione non meno diffusa, quella per cui è il “popolo che lo vuole”. Anzi, la “gente”. Il popolo è la vera entità metafisica alla quale rifarsi quando si intende ottenere la validazione per qualcosa di altrimenti ingiustificato. Il gentismo – un neologismo che già nella sua sgradevole pronuncia rivela di quale natura sia fatta la sostanza che avvolge – è l’ideologia dei tempi senza idee. Rimanda ad una visione della volontà collettiva e della sovranità pubblica che ha lo spessore del vuoto. Non a caso è una cassa di risonanza di qualsiasi contenuto vi si intenda immettere, a partire da quel grande collante degli spaesati e dei disincantati di ogni epoca ed età che è il risentimento. Si è risentiti quando ci si sente privati di qualcosa che, a torto o ragione, si ritiene di avere ingiustamente perduto o del quale ci si reputa spossessati senza colpa alcuna. Si coniuga ad un altro atteggiamento mentale, che ha la propensione del farsi immediato predicato morale, ovvero il “populismo”, in sé espressione lessicale tanto inflazionata quanto ambigua poiché privata dei suoi più autentici significati. Qualcuno ha detto, con rara efficacia, che il tratto dei populisti è il rimando alla democrazia senza la Costituzione, quindi alla volontà dei molti senza il freno ragionevole e razionale della legge. Ad avere un po’ di sale in zucca si capisce da subito che la volontà senza la responsabilità è la via maestra per le peggiori nequizie, una strada falsamente consensuale alla barbarie quotidiana nel nome, per l’appunto, di una “divinità qualsiasi”. Un tempo i dioscuri dominanti ai quali genuflettersi erano la razza, la stirpe, la classe, il partito, la nazione, lo Stato. Ora è il “popolo”, inteso come assembramento di individui in sé anonimi ma in servizio permanente effettivo quando si tratta di manifestare aggressivamente la propria indignazione. Che ha ad obiettivo la denuncia dell’esproprio della propria esistenza, operato dalle élite della globalizzazione. Quanto possa esserci di vero nel fatto che un divorzio, per nulla consensuale, si sia consumato tra le collettività che vivono faticosamente nei territori dove più intensi sono stati gli effetti dei mutamenti in questi ultimi tre decenni, e quei gruppi, variamente articolati e connotati ma caratterizzati dal sapere tutelare corporativamente i propri interessi a scapito del resto della società, è materia di una discussione tanto lecita quanto necessaria. Sarebbe però buona cosa, se si intende per l’appunto evitarsi un ulteriore atto di espropriazione, non aggrapparsi all’ennesimo spettro collettivo, per l’appunto quel “popolo” che è solo il paravento dietro al quale ancora una volta i calcoli cinici dei pochi vengono fatti passare per i bisogni dei tanti. L’indistinzione è sorella della banalizzazione. Chi di noi gradirebbe essere inteso come una persona banale e indistinguibile?
Claudio Vercelli