Noè…
Introducendo il racconto del diluvio, la Torah usa nei riguardi di Noè l’espressione “Noè era un uomo giusto e integro nelle sue generazioni” ( Genesi 6,9), che viene variamente interpretata: come accentuazione di merito nei confronti di Noè, rispetto al fatto che, in tempi migliori, anche le sue qualità morali avrebbero avuto maggiori possibilità di emergere o, al contrario, di limitazione, in considerazione del fatto che egli si fosse distinto in senso positivo solo nei riguardi di generazioni così malvagie. Le perplessità sui limiti morali di Noè sono particolarmente legate, in vari commenti dei Maestri, al fatto che egli non appare in alcun modo reagire emotivamente alla sentenza di distruzione comunicatagli dall’Eterno e tanto meno lo si vede tentare di sventare la catastrofe, a differenza di quanto faranno, in situazioni analoghe, Abramo – di fronte all’annuncio della distruzione di Sodoma – e Mosè davanti all’eventualità che il popolo d’Israele venisse a subire le punizioni più gravi per l’idolatria del “vitello d’oro”. Il giudizio morale sul comportamento di Noè appare anche in un’interpretazione relativa ad uno degli momenti caratterizzanti di tutto l’evento: l’ingresso di Noè nell’arca all’inizio del diluvio. “ il Signore chiuse (la porta dell’arca) dietro di lui”(Genesi 7,16) ; la chiusura della porta “dall’esterno” ci dà l’idea che l’arca, oltre che strumento di salvezza, costituisse per Noè anche una sorta di luogo di reclusione, a cui egli viene assoggettato, quale punizione per la sua indifferenza che lo rendeva parzialmente corresponsabile di quell’enorme distruzione; la sua condizione è quindi paragonabile alla pena dell’esilio, stabilita dalla Torah per l’omicida involontario. In senso metaforico, l’indifferenza di fronte al male che ci circonda finisce col diventare una gabbia nella quale noi stessi ci troviamo rinchiusi.
Giuseppe Momigliano, rabbino
(18 ottobre 2017)