La destra che viene
Continuare a parlare di «voto di protesta», così come di «geografia del disagio», per ragionare e motivare le scelte elettorali che, prima in Germania poi in Austria, hanno premiato – consolidandone il seguito elettorale e l’insediamento parlamentare – partiti «populisti» (altra definizione forse obbligata ma oramai lungi dall’essere in sé esaustiva), aiuta ben poco. A meno che non ci si soffermi sul significato e il rapporto tra «disagio» e «protesta», non attribuendo l’uno e l’altra solo ed esclusivamente ad alcune fasce sociali o a chi, non importa quanto a torto oppure a ragione, si sente profondamente leso dagli effetti dei processi di globalizzazione. Poiché i buoni risultati di Alternative für Deutschland-AfD prima, poi dell’Österreichische Volkspartei–ÖVP (il Partito popolare austriaco di Sebastian Kurz) e del Freiheitliche Partei Österreichs –FPÖ (il Partito della libertà austriaco di Heinz-Christian Strache) non derivano solo ed esclusivamente dal senso di marginalità sociale e di deprivazione economica espresso dai molti che hanno scelto le loro liste nelle ultime elezioni legislative dei due paesi di lingua tedesca. In generale, il fenomeno che oramai è radicato in tutta l’Europa centrale ed orientale – dove a ricevere un crescente riconoscimento e un mandato di rappresentanza sono sempre più spesso i movimenti o i partiti dal chiaro accento conservatore ma movimentista, accesamente liberalnazionalisti (di contro ai “vecchi” partiti centristi, come i democratico-cristiani e gli stessi socialdemocratici) – segna una crisi dei sistemi politici europei proprio nei luoghi in cui questi avevano invece retto alle trasformazioni dei primi anni Novanta, intervenute dopo la fine della guerra fredda (ed in particolare Francia, Germania, Austria). Oppure, proprio grazie ad essa, si erano strutturati, come è successo nell’Europa orientale, a ricalco del modello importato dall’Occidente (l’area coperta dal gruppo di Viségrad). Quel ciclo, avviatosi con il 1989, si sta chiudendo, dopo trent’anni circa di sua incerta durata. Sul piano elettorale è forse questo il segno più radicale, accompagnato in tutta l’Europa continentale da una chiara declinazione a destra dell’agenda delle priorità politiche. Ad Est, quindi, segna il ritorno di fiamma di un nazionalismo di antica radice, mai venuto meno ma vissuto in maniera carsica, accomunato, nella specificità delle singole esperienze nazionali, dal ritenere anacronistica la divisione dei poteri implicata dall’adozione dei sistemi democratici. Per essere chiari: non si tratta del riaffermarsi di forme dittatoriali o rigidamente autocratiche bensì della secca riduzione del pluralismo politico ed istituzionale, per come era stato invece proposto in quanto via d’uscita dalla crisi irreversibile del comunismo. I casi ungherese e polacco sono un po’ la cartina di tornasole di questa tendenza. Ad Ovest, invece, si misura con l’affermazione di un sovranismo che, in oramai totale assenza di una sinistra popolare, coniuga la rappresentanza dei ceti che meno hanno goduto degli effetti della globalizzazione (altrimenti definita «mondialismo») alla tentazione di una qualche forma di improbabile protezionismo economico. Improbabile poiché impraticabile nei fatti (ancorché di chiaro richiamo elettorale) non meno che sostanzialmente estranea alla dottrina di fondo che quegli stessi partiti, o liste elettorali professano, informata semmai ai principi del libero mercato e, quindi, all’obbligata apertura delle frontiere agli scambi di merci e di denari (ma non altrettanto di forza lavoro). Nell’uno come nell’altro caso non è quindi in crisi un’opzione progressista, da tempo oramai consumatasi nel dedalo della politica delle compatibilità e dell’acquiescenza all’agenda liberista, bensì il liberalismo classico, come anche quelle componenti politiche che più e meglio si erano fatte espressione di una economia sociale di mercato. Bisognerà quindi imparare a distinguere tra liberalismo novecentesco e quanto sta invece maturando e sopravvenendo. Che non può essere risolto nella definizione di «populismo» (benché ne adotti alcuni schemi culturali ed ideologici, così come il suo peculiare stile di comunicazione), rimandando semmai ad una sorta di ondata neoliberale, dai tratti molto diversi rispetto al passato. Il neoliberalismo non ha più al suo centro l’autonomia dell’individuo ma una diversa concezione delle relazioni sociali, modellata sulla crisi dei ceti medi continentali e sul più generale ridisegno della morfologia socio-demografica che è in atto. Non a caso i suoi elementi costitutivi sono l’accettazione del mercatismo (laddove la sfera dell’economico sembra esistere in virtù di un’autonomia che non può essere messa in alcun modo in discussione) e la visione tecnocratica nella gestione dei rapporti di scambio e di redistribuzione della ricchezza prodotta socialmente; il richiamo alla disintermediazione, sia pubblica (l’intervento dello Stato, che va quindi contenuto) che privata (il ruolo e l’influenza dei cosiddetti «corpi intermedi», i soggetti collettivi della contrattazione, che debbono essere ridimensionati), da sostituirsi con i farraginosi meccanismi della «democrazia diretta» (essenzialmente i referendum popolari, intesi come forme di espressione plebiscitaria della volontà collettiva); l’avversione verso il cosiddetto «gender mainstreaming» (il complesso della politiche per la parità tra i sessi), nei confronti del «politically correct» (inteso come il campo di dominio delle minoranze sulla maggioranza) e delle politiche pubbliche di riconoscimento della diversità sessuale (quest’ultima presentata come un vero e proprio campo delle “perversioni contro natura”); l’euroscetticismo, che è una delle risorse più importanti nel paniere programmatico di queste formazioni politiche, essendo esse stesse il prodotto della crisi di legittimità che da più di quindici anni, oramai, accompagna come uno spettro permanente l’Unione europea (e quindi, alla resa dei conti, alimentandosi di essa); il rifiuto dell’immigrazione – seconda grande tematica – che, se sul piano culturale si spinge fino ad assumere atteggiamenti dichiaratamente xenofobi, nei fatti darà seguito, quasi certamente, soprattutto a politiche molto più restrittive nel merito del diritto d’asilo e del controllo dei flussi in ingresso. A questo quadro di massima si legano poi le richieste di procedere ad una netta razionalizzazione della spesa pubblica, intesa nei termini di una riformulazione fortemente selettiva degli obiettivi, e nella reintroduzione, laddove già non ci sia, della produzione di energia nucleare. Quest’ultimo elemento, che potrebbe sembrare secondario, è invece associato all’idea di sovranità nazionale e di politica di potenza. Il neoliberalismo di tale fatta trova un suo forte accento nel nesso che istituisce tra sovranismo e identitarismo. Il primo rimanda alla riaffermazione della capacità coercitiva dello Stato, dinanzi agli scardinamenti delle frontiere, soprattutto di quelle economiche, causate dai processi di globalizzazione. Più che rinviare allo «Stato-provvidenza», tipico del liberalismo sociale, è qui in campo l’idea di uno Stato ricondotto alla sua funzione basica, l’esercizio legittimato del ricorso alla forza per garantire – essenzialmente – quella sicurezza fisica che invece sembra essere andata perduta. Il secondo recupera la crisi d’identità dei ceti medi, e la perdita di parte del loro status economico ma anche culturale, rilanciando l’idea che la risposta riposi nell’enfatizzazione dei legami territoriali, da difende contro la minaccia di un meticciato universale a venire, ingenerato dal sovrapporsi dei flussi migratori. Sovranismo e identitarismo, quindi, trovano non a caso nel tema del contrasto all’immigrazione il loro punto di sintesi. Tuttavia, nell’identificare in questo obiettivo un tratto qualificante del populismo politico che pure li accompagna, i partiti nazionaliberali – che descrivono i processi migratori come il prodotto della volontà di élite globalizzanti che, così facendo o permettendo, spogliano le comunità locali delle loro specificità e dei loro diritti – rivelano una preoccupante propensione ad adattare il loro tiro polemico contro le stesse minoranze interne, anch’esse accomunabili agli immigrati, quanto meno in ipotesi, per una presunta diversità “etnica” di principio. Su questa piattaforma, infatti, si misurerà sempre più spesso il loro maggiore o minore grado di compatibilità con le democrazie sociali. Il tema della differenza (di genere, culturale, religiosa) e del diritto a praticarla in accordo con i valori condivisi, sarà un fondamentale banco di prova per capire cosa effettivamente queste formazione politiche potranno riservare ad un’Europa in chiaro affanno, non solo di ordine economico.
Claudio Vercelli
(22 ottobre 2017)