Presidenti, un piccolo grande libro
che riapre una strada

L’effetto delle Leggi Razziali sul mondo del calcio fu a dir poco devastante. Si tratta di un capitolo poco approfondito e invece ricco di spunti per comprendere la portata di quell’infamia a un livello più ampio. In vita o in memoria, alcuni tra i principali protagonisti di quegli anni furono privati dei loro incarichi e messi in un angolo. Ebrei orgogliosi di esserlo, ebrei sull’orlo dell’assimilazione, ebrei d’origine ma ormai cattolici da tempo. Non fu fatta distinzione, tutti finirono nel tritacarne (mediatico e non solo).  
In vista dell’ottantesimo anniversario delle Leggi della vergogna, annunciate da Mussolini in Piazza Unità d’Italia a Trieste il 18 settembre del 1938, il saggio Presidenti (ed. Giuntina) di Adam Smulevich si propone di gettare nuova luce su tre figure particolarmente significative: Raffaele Jaffe, Giorgio Ascarelli, Renato Sacerdoti. I loro destini seguono traiettorie diverse, eppure possono essere ricompresi in una comune narrazione. 
L’estroso insegnante Jaffe, artefice del primo e unico scudetto del Casale. Il lungimirante imprenditore Ascarelli, che regalò a Napoli una squadra all’altezza delle sue ambizioni. Il facoltoso banchiere Sacerdoti, che gettò le basi del primo scudetto della Roma. Tre ebrei italiani, nel cuore di milioni di tifosi, travolti dalla propaganda e dalla valanga di odio del regime. 
Oggi quasi nessuno li ricorda. 
Eppure è convinzione dell’autore che attraverso queste vicende sia possa guardare a quella stagione in modo più consapevole. Le lettere inviate dal fascista Sacerdoti a Mussolini durante il confino subito dall’ex presidente giallorosso, a lungo un fedelissimo del Duce, costituiscono una testimonianza inedita su cui vale la pena riflettere. Anche perché il caso giudiziario che portò alla sua condanna, in quell’autunno del ’38, fu uno dei bersagli preferiti dei dardi carichi di veleno scagliati da Villa Torlonia e dintorni. Una vicenda centrale a tutti i livelli: nelle aule dei tribunali, ma anche sulle colonne dei giornali. Vanno riprese in mano, quelle pagine, perché aiutano a capire fin dove si spinse la propaganda. Anche ritorcendosi contro un uomo che fu acceso sostenitore del regime sin dalla Marcia su Roma e che con lo stesso, poche ore prima dell’arresto, stava collaborando a una missione strategica in Grecia. Il veleno fu iniettato anche postumo. Ascarelli era già mancato da otto anni quando le Leggi portarono alla cancellazione del suo nome dallo stadio di Napoli. Non un luogo come tanti altri. Quattro anni prima, la Germania giocò in quell’impianto la finale per il terzo posto al Mondiale italiano. Ed ecco un’altra sorpresa, stavolta consolante. L’undici di Hitler disputò l’incontro più importante della sua storia in uno stadio comunque consacrato alla memoria di un ebreo (tra l’altro socialista). Una vendetta, sfuggita in questi termini agli addetti ai lavori, che strappa oggi un sorriso amaro.  
Quando le Leggi furono ufficializzate Ascarelli era già morto, mentre Sacerdoti e Jaffe si professavano cristiani. Si erano convertiti entrambi nel 1937, diversi mesi prima che i divieti antiebraici entrassero in vigore. Eppure subirono conseguenze gravissime per via della loro origine. Jaffe dovette lasciare la carica di preside dell’istituto che dirigeva a Casale, un’autentica gloria cittadina; Sacerdoti finì addirittura in carcere e fu poi allontanato da Roma per cinque lunghissimi anni. Dopo l’otto settembre, i nazisti cercarono di far la pelle a tutti e due. Con Jaffe, che fu ucciso al suo arrivo ad Auschwitz, ci riuscirono. Con Sacerdoti, che si nascose in un convento, i loro propositi fallirono. 
“Questo per dire – scrive Smulevich – che quella pagina, l’orrenda pagina del pregiudizio e della violenza fascista, riguarda un po’ tutti. E che rileggerla attraverso lo sport, linguaggio universale per eccellenza, può forse aiutare a fare chiarezza. E al tempo stesso contribuire ad aprire nuove strade, a rafforzare la sfida di una Memoria realmente viva nel cuore delle vecchie come delle nuove generazioni”.
Sarebbe inoltre significativo, aggiunge l’autore, se anche grazie a questo libretto il mondo del calcio potesse avviare una riflessione e rendere un doveroso omaggio a questi tre personaggi che molto hanno fatto, con intuizioni formidabili, perché la grande avventura del pallone potesse decollare anche in Italia.

I tempi cambiano, i problemi incalzano e la memoria rischia di sbiadire. Parlare con la società civile è difficile come non mai. Sostenere in una stagione di dura crisi economica il peso delle istituzioni di una minoranza piccolissima nei numeri e grandissima nella storia, negli ideali e delle speranze, sembra quasi impossibile.
Poi, da un momento all’altro, salta fuori qualche antenato che viene a darci una mano. E ci rendiamo conto che il maggiore patrimonio di sicurezza e di stabilità, il vero tesoro, in questi tempi di ricchezze fasulle, non sono tanto le glorie, ma molto di più le sofferenze di chi ci ha preceduto.
C’è ora un piccolo, grande libro che può riaprire una strada. Con il suo Presidenti Adam Smulevich ha scelto di raccontare la storia di tre ebrei italiani che all’Italia donarono quello che gli italiani più dicono di amare: l’emozione del calcio. E tornano in campo tre personaggi che vollero essere italiani come gli altri, condividere le passioni di tutti, donare emozioni e godersi fugaci glorie sportive. Tornano oggi, dopo anni e anni di silenzio, di colpevole oblio, proprio sui campi di gioco da cui furono allontanati. Tornano con tutte le loro inevitabili contraddizioni dall’oblio, dalla persecuzione, dallo sterminio, per ricordarci che nelle piccole e nelle grandi cose non c’è Italia senza gli ebrei italiani.
Un libro sulla storia del calcio non credevo rientrasse nei miei interessi e non mi era ancora mai capitato di dedicarmici. Ma questo libro è diverso, e ho provato a leggerlo cercando di lasciare le esaltanti vicende sportive che racconta da un canto. Mi interessava capire cosa si può fare per raccontare all’opinione pubblica da dove veniamo, chi siamo, dove vorremmo andare. E quando abbiamo bisogno d’aiuto, e quanto potremmo essere d’aiuto. E mi interessava vedere come se la sarebbe cavata un giovane collega cresciuto in questa redazione giornalistica alla prova della narrazione e della rigorosa ricostruzione storica.
Ho visto così i tre Presidenti tornare in campo, ottenere se non altro un atto di giustizia, un omaggio tardivo, documentare il loro lavoro coraggioso e le loro sofferenze. E ho sentito un momento di silenzio, quasi un segno di gratitudine, serpeggiare fra le folle degli spalti.
Aver restituito loro voce e dignità è un merito enorme e un motivo d’orgoglio per tutti coloro che credono nel giornalismo ebraico. La loro lezione riapre il dialogo fra ebrei italiani e società italiana e ha da dire più di qualunque convegno, di qualunque cerimonia, di qualunque investimento pubblicitario, di qualunque smania di protagonismo. I Presidenti sono tornati per svelarci il segreto che fino ad oggi ha condotto nel bene e nel male gli ebrei italiani. Aver restituito loro la voce che fu spenta è un segno di professionalità e di speranza più grande di un campo di calcio. Perché gli ideali e il giornalismo sono un gioco di squadra.

g.v, Pagine Ebraiche ottobre 2017

(22 ottobre 2017)