Qui Milano – Storie di salvezza nell’inferno delle persecuzioni
In libreria da fine settembre Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945, la documentata ricerca sulla memoria della salvezza lanciata dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano con il coordinamento di Liliana Picciotto. Al contrario di quanto già descritto dall’autrice ne Il libro della memoria e in altri studi, si parla qui dunque del “rovescio della medaglia”. Il volume sarà presentato oggi (ore 18.00) dall’autrice al Memoriale della Shoah di Milano assieme a Walter Barberis, presidente della Giulio Einaudi editore. Saranno presenti tra gli altri il presidente della Fondazione Cdec Giorgio Sacerdoti e al presidente della Fondazione del Memoriale Ferruccio De Bortoli. Sul numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione, Liliana Picciotto e il direttore del Cdec Gadi Luzzatto Voghera presentano il significato del grande lavoro svolto per realizzare la ricerca.
Salvarsi, il mio ultimo libro uscito in settembre presenta i risultati del progetto Memoria della Salvezza del CDEC, finanziato dalla Viterbi Family Foundation. La finalità del lavoro è stata di produrre una riflessione su come molti ebrei abbiano potuto salvarsi malgrado fossero il bersaglio della specifica “caccia all’uomo” programmata nei loro confronti dalle autorità fasciste e naziste. Al contrario di quanto già descritto ne Il libro della memoria (Mursia editore) a proposito degli ebrei arrestati e deportati, si parla qui dunque del “rovescio della medaglia”.
Questa ricerca, per gli obiettivi raggiunti e per la metodologia applicata, può essere un progetto guida per analoghe indagini in altri Paesi europei. Gli ebrei sfuggiti alla Shoah in Italia furono più dell’81 %, nella Francia di Vichy la percentuale di ebrei salvi è vicina a quella dell’Italia, 78%, mentre la civilissima Olanda ha avuto una percentuale di salvi che si aggira sul 29%. Sarebbe interessante e aprirebbe nuove piste storiografiche poter fare una comparazione sia quantitativa, sia qualitativa tra le varie politiche nazionali e i rispettivi atteggiamenti popolari verso gli ebrei e la Shoah.
Nessuno in realtà si era finora posto il problema in modo sistematico e scientifico su chi fossero i salvi e come mai si fossero salvati. Con questo approccio, lo staff del CDEC guidato da chi scrive e composto da Chiara Ferrarotti (purtroppo scomparsa nel settembre dello scorso anno, z’l), Luciana Laudi e Gloria Pescarolo, ha raccolto, in otto anni di lavoro, una mole immensa di materiale documentario. Sono state realizzate 700 interviste ad anziani in grado di raccontare le loro vicende di ansia, di terrore e di fuga davanti al pericolo mortale.
Sono stati sondati 520 libri di memoria, sono state analizzate decine di migliaia di documenti di archivio per arrivare ad un risultato veramente soddisfacente. Si sono infatti raccolti più di 10.000 nomi di ebrei salvi e i loro dati caricati su di un sistema complicato di data base incrociati. Tramite questo, siamo oggi in grado di dire quanti ebrei sui 10.000 identificati sono stati soccorsi negli ospedali, quanti nelle case religiose, quanti fuggendo in Svizzera, quanti rifugiandosi nelle campagne, quanti sono passati nella clandestinità dotati di documenti falsi, e molto altro. Si è cercato insomma di uscire dalla modalità di scovare “casi esemplari” di Giusti che hanno salvato ebrei e dalla descrizione di singoli episodi, per passare ad una analisi dei comportamenti collettivi. Modalità comuni di ricerca di salvezza da parte degli ebrei sono emerse chiaramente, mentre si è cercato di spiegare anche l’atteggiamento della società civile e della Chiesa davanti all’emergenza Shoah.
I temi trattati dall’opera sono ad esempio: che cosa sapevano gli ebrei in Italia della Shoah che infuriava già nell’Europa sotto influenza nazista? E che cosa ne sapeva la gente comune? Quale era il rischio per un normale cittadino che desse soccorso agli ebrei? Può questo soccorso definirsi come resistenza civile? C’era differenza tra il soccorso agli ebrei e quello ad altre parti sociali ugualmente bisognose di passare nella clandestinità: renitenti alla leva, soldati dell’esercito alleato evasi, antifascisti? Come il fatto di essere perseguitati per famiglie intere ha influito sulla scelta delle modalità di ricerca della salvezza? Oltre ad una ponderosa ricostruzione storica, l’ultima parte del volume è dedicata a testimoni diretti che raccontano in prima persona le loro vicende. Sono stati scelti episodi paradigmatici di soccorso ricevuti da cittadini laici o da religiosi e episodi dove, autonomamente, cittadini ebrei trovarono il modo di salvarsi. Questo libro costituisce un omaggio ai generosi soccorritori di ebrei, ma è anche un tributo a quei capifamiglia di allora che seppero usare preveggenza, coraggio e capacità di affrontare uno stato di allarme permanente.
Liliana Picciotto storica, Fondazione Cdec
Il libro di Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945 (Einaudi 2017) è il prodotto di una lunga ed accurata ricerca documentaria e di una straordinaria opera di raccolta di testimonianze orali. Un libro che offre al lettore una serie importante di spunti di riflessione in un momento storico particolare, quello che viviamo ora, in cui molti nodi della storia sembrano riaffiorare dal passato e richiedono capacità critica e soprattutto uno sguardo non stereotipato, disposto a cogliere le articolazioni di una realtà complessa. Nel periodo 1943-45 in Italia e in tutto il mondo interessato dal tragico conflitto mondiale ci furono i cosiddetti giusti, e ci furono gli ingiusti.
Ci furono atteggiamenti che oscillavano fra questi due estremi (anche nelle stesse persone) e ci furono tanti indifferenti, o inconsapevoli, o silenti, o altro ancora. Il giudizio storico sull’atteggiamento dei singoli deve essere sempre cauto e formulato, quando necessario, sulla base di documentazione certa. E deve, credo, essere mediato da quella pìetas umana che è necessaria quando noi, dai nostri letti caldi e dalle nostre confortevoli abitazioni, ci accingiamo a esprimere giudizi sul comportamento dei singoli in situazioni estreme. Non che non ci si possa pronunciare, naturalmente, ma la distanza storica e ambientale deve essere tenuta nella giusta considerazione. Quando però si passa ai giudizi collettivi il discorso cambia. In questo senso, la recensione che Antonio Ferrari ha voluto dedicare al libro in uscita sulle pagine del Corriere della Sera indirizza il lettore in una direzione che non solo non rispecchia il quadro teorico nel quale si inquadra la ricerca di Liliana Picciotto, ma dimostra di non tenere in nessuna considerazione il ricco dibattito storiografico che da più di trent’anni si incentra sulla favola pseudo antropologica degli “italiani brava gente”.
“L’italiano non è e non sarà mai un carnefice”, come si legge nell’articolo, è un’affermazione che si commenta da sola per la sua assurdità storica, ma che non sarebbe presa bene se pronunciata, che so, alle orecchie di qualche etiope di buona memoria, o fra le dune della Libia e della Cirenaica, per non parlare – se vogliamo rimanere in tema – degli ebrei arrestati da italiani (la maggioranza) proprio negli anni oggetto della ricerca recensita. Affermare poi che Mussolini “si adeguò” alle leggi razziali “con qualche mal di pancia” è semplicemente un falso storico (che lo stesso Mussolini rifiuterebbe di sicuro con sdegno).
È infatti noto e documentato il suo coinvolgimento diretto e per nulla “suggerito e caldeggiato da Hitler” (che non si espresse mai in questo senso per la situazione italiana) nell’elaborazione teorica e poi pratica delle legislazione razzista del 1938. Ma, quel che è peggio, è del tutto palese la sua mano nella legislazione della repubblica sociale italiana che condannava sostanzialmente a morte tutti quegli ebrei che poi – seguendo percorsi personali fortunosi – riuscirono per l’appunto a “salvarsi”. L’appiattimento su giudizi storiografici collettivi autoassolutori non ci aiuterà a fare veramente i conti con il passato (in un momento in cui si discute molto di musei del fascismo e della resistenza), e non ci aiuta certo a guardare con il dovuto acume alla complessa e articolata realtà che ci troviamo a vivere, nella quale gli italiani – come nel corso di tutta la loro storia – non sono collettivamente né gente brava né gente non brava, ma una realtà composita che segue comportamenti diversificati, come in tutte le società complesse.
Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC