MACHSHEVET ISRAEL Conoscere o credere? Il dilemma in Maimonide

massimo giulianiIl Rambam, Moshè ben Maimon, il maggior filosofo ebreo dell’età di mezzo, all’inizio del suo Mishnè Torah, trattato Hilkhot Jesodè Torah, ossia le Norme sui fondamenti della Torah (scritte in ebraico), afferma che la prima mitzvah positiva è “conoscere che c’è un Dio”, e spiega: “Il fondamento dei fondamenti e il pilastro di ogni sapienza sta nel conoscere che esiste un Essere Primo, il quale conferisce l’esistenza a tutto ciò che esiste…” (I,1). Più avanti (I,7) egli fa derivare questo fondamentale precetto del “conoscere” dallo stesso Shemah Israel. D’altra parte, lo stesso Rambam elenca come primo precetto, nel Sefer ha-mitzvot, il Libro dei precetti (scritto in arabo), “il comando che abbiamo ricevuto di credere nella Divinità, credere cioè che esiste una causa o un movente, che è il Creatore di tutto ciò che esiste”. Le due versioni di questo (primo) precetto sarebbero quasi identiche se non fosse che la prima dice “conoscere” e la seconda “credere”. Che differenza c’è? È più importante conoscere o credere? Quanto pesa la fede nella vita ebraica? Forse che l’una non esclude l’altra, dato che chi conosce non ha bisogno di credere? Si può essere ebrei ‘osservanti’ senza aver ‘fede’, ossia senza dover credere a tutti i contenuti ricevuti dalla tradizione? Se il giudaismo è essenzialmente un’ortoprassi, perché il Rambam usa (seppur in arabo) il verbo credere? Per Rav Menachem Emanuele Artom, traduttore in italiano e commentatore del Sefer ha-mitzvot, è lo studio che media tra i due verbi: chi studia diventa consapevole, e dunque sa dentro di sé e si convince di cosa fare, e questo è il contenuto della fede, del credere.
Davar acher: tutte le fedi monoteiste si fondano su testimonianze, le quali sono ritenute veritiere, ossia portatrici di verità e degne di fede; si tratta di un presupposto ‘incontrovertibile’. È un fenomeno diffuso. Si pensi, per analogia, alla data e al luogo della nostra nascita. Nessuno dice: credo di essere nato il giorno X nel luogo Y. Invece diciamo: sono nato il giorno X nel luogo Y, con certezza. Non lo crediamo, lo sappiamo. Ma questo sapere è una conoscenza fondata sulla fede in testimoni (i nostri genitori, l’ufficiale dell’anagrafe…), che consideriamo incontrovertibilmente degni di fede, almeno per noi stessi. Fuori analogia, possiamo dunque interpretare il senso dell’affermazione del Rambam: la prima mitzvah è conoscere/sapere che… Dio esiste, è uno, è senza corpo, ecc. Lo sappiamo, perché ci fidiamo e la nostra fede si basa su un sapere ben testimoniato (in questo caso, nella Torah). Ecco perché non può esservi contraddizione tra l’incipit del Mishnè Torah e il primo precetto del Sefer Ha-mitzwot. Poiché poi la testimonianza veritiera è appunto quella della Torah, scritta in ebraico, il verbo (in ebraico) è ‘conoscere/sapere’, mentre per chi vi accede dalla cultura esterna, o da un altro linguaggio, il verbo è credere (in arabo). Due approcci complementari, quelli del Rambam, che non si contraddicono; semmai rimandano alla circolarità di due principi assai diffusi nel Medioevo (cristiano): “credo ut intelligam”, credo al fine di capire, complementare al meno intuitivo ma altrettanto fondamentale: “intelligo ut credam”, mi sforzo di capire – o almeno, come dice Rav Artom, mi impegno a studiare – per meglio credere.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI