…giudicare

“Weal tadin eth chaverekhah ‘ad shetaghia’ limqomò”: ‘e non giudicare il tuo prossimo finché tu non sia giunto al suo posto’, ammonisce la Mishnà. E forse non significa solo ‘non giudicare perché non ti trovi al suo posto (e quindi non sei in grado di capire)’, ma anche ‘non giudicare fino a che non ti troverai (necessariamente) nella sua situazione’, e un giorno, vedrai, potrà capitare anche a te di trovartici. Quindi, è opportuno che tu sospenda il giudizio.
Scrive Rambam, nelle Hilchot Teshuvah, che chi rispetta tutte le mitzwoth ma non si sente parte delle sofferenze della comunità di Israele “ein lo cheleq ba’olam haba”, ossia non avrà parte nel mondo futuro. Una sentenza alquanto dura quella del grande Rambam. Eppure c’è una tendenza, in chi si sente rigorosamente ‘osservante’, a non considerare di alcun rilievo le mitzwoth ‘fra l’uomo e l’uomo’, quelle che richiamano al rispetto del prossimo e a sospendere il giudizio su di lui. Forse perché non lo si vuol considerare ‘prossimo’. Forse perché ci si sente immuni da giudizi di sorta. Al di sopra di qualsiasi giudizio. Eppure, chi crede sa che il giudizio, prima o poi, dovrà arrivare. Ma sarà tardi per mettersi, finalmente, e umilmente, nei panni dell’altro.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia