Periscopio – Lettera ad Anna

lucreziCara Anna,
recenti, tristi episodi di cronaca, che hanno richiamato, ancora una volta, l’attenzione generale sul tuo nome e sulla tua persona, mi inducono a formulare un paio di brevi considerazioni. Farlo nella forma di una lettera aperta, indirizzata a una persona che non può rispondere, in quanto non più in vita, può apparire improprio, soprattutto per il rischio di incrementare una cosa che spesso si accompagna al modo in cui vieni evocata e ricordata, ossia la retorica. Non sappiamo come tu saresti ora, se fossi ancora vivente (forse un’allegra signora di 88 anni, madre e nonna felice?), ma sappiamo che, a 13, 14, 15 anni, non amavi la retorica, e sono perciò certo che non l’ameresti neanche ora.
È sbagliato rivolgersi a una persona che non c’è più, e non può rispondere? Non credo, lo facciamo tutti, nel dialogo muto che intratteniamo con i nostri cari che ci hanno lasciato. Ma come si deve parlare a una persona morta in giovane età? Come se avesse ancora, e per sempre, l’età che aveva il suo ultimo giorno? Quando provo a parlare con il fratello che non ho mai conosciuto, e che non aveva ancora sei anni quando è scomparso, non mi rivolgo a lui come a un bambino, ma come al mio fratello maggiore, quale è stato e rimane, per sempre. E provo a fare lo stesso con te. Di te sappiamo solo quel che ci è dato conoscere dal tuo diario, e sei rimasta, per tutti e per sempre, l’adolescente di quelle pagine. Ma tu sei ben altro, sei, anche tu, una nostra sorella maggiore. Da te abbiamo solo da imparare, e molto. Tra l’altro, quando la tua vita è finita, nel marzo del ’45, eri già un’altra persona rispetto all’ultima pagina del tuo diario, erano passati otto mesi, che, a quell’età, non sono pochi. E quegli ultimi otto mesi, poi, ti hanno certamente costretto, in modo atroce, a diventare, immediatamente, adulta.
La tua vita, com’è noto, presenta, tuo malgrado, dei tratti evidentemente singolari. Un’infanzia felice, serena, sia pur con tutti i crucci e le ombre di ogni infanzia. Un’adolescenza murata in un’assurda prigione, di cui non hai mai potuto capire il senso, ma dalla quale sei riuscita a evadere come una farfalla, con la sola forza della tua poesia. Una morte crudele, a soli quindici anni. Due anni dopo, un’imprevedibile ‘rinascita’, attraverso le pagine del tuo diario, che hanno fatto di te, in tutto il mondo, e per tante generazioni, un simbolo. Anche in questo caso, tuo malgrado. Certamente, se tu avessi vissuto, non avresti mai accettato che tanti sconosciuti leggessero delle pagine così intime, scritte solo per te stessa. Ti sarebbe apparsa una grave violenza, e pubblicare il tuo diario senza il tuo consenso sarebbe stato un atto giustamente sanzionabile per legge. Ma la tua morte ha cambiato le cose, la tua vita privata è diventata pubblica. Lo avresti accettato, da persona che non c’è più? Ti sarebbe piaciuto che tanti sapessero tanto di te? E ti sarebbe piaciuto diventare un simbolo? Probabilmente no, ma è accaduto, e non si può tornare indietro.
Ma di cosa, esattamente, sei simbolo? Dell’innocenza, del candore, della generosità, della fiducia negli uomini? O, al contrario, dell’umana nequizia, dell’odio cieco e bestiale che ti ha strappato alla vita? O, ancora, della straordinaria, incontrollabile forza della parola, capace di attraversare il tempo e lo spazio, al di là della stessa volontà di chi la pronuncia? O della capacità del cuore di toccare altri cuori, anche di persone mai incontrate, mai conosciute, magari vissute tanti anni dopo, in luoghi tanto lontani? Di tutto questo, forse, e anche di tanto altro, difficile dire.
Ma non sei rimasta sempre la stessa, perché il passare del tempo ha cambiato la percezione di te. Il mondo che ha letto le tue pagine è mutato, anche profondamente, nel corso degli anni. E ci sono state, perciò, tante Anne. I sentimenti e le reazioni sollecitati dal tuo diario sono stati tanti: commozione, dolore, lacrime, rabbia… E, come sai, anche altro: indifferenza, superficialità… E perfino scherno, odio, disprezzo. E sei diventata, così, anche una sorta di termometro dello spirito dei vari tempi. Ogni anno ha avuto la sua Anna, e il tuo diario è diventato, in un certo senso, il giudice della coscienza di tutti gli anni venuti dopo di te. Ti avrebbe fatto piacere, tutto questo? Non possiamo saperlo. Probabilmente, anche in questo caso, no, ne avresti fatto volentieri a meno.
Credo che gli ultimi tempi, come vedresti, se potessi vedere, siano tra i peggiori. E anche di questi tempi cattivi il tuo diario è diventato un muto giudice. Oggi, in questi giorni pieni di nubi scure, sembra che tu stia diventando un simbolo diverso, una sorta di discrimine tra un “noi” e un “loro”, tra i “buoni” e i “cattivi”. Chi ti onora e ti ammira, apparterrebbe alla prima categoria, chi dileggia la tua memoria, alla seconda. Ciò può anche essere vero, non so, ma non mi trovo d’accordo con tutti quei tentativi condotti, anche in buona fede, per “allargare” forzatamente (o illudersi di farlo) il perimetro dei “noi”, restringendo ed emarginando quello dei “loro”, costringendo grandi folle ad ascoltare la tua voce, e dando così l’idea che “tutti noi” ci commuoviamo per te, ad eccezione delle poche (?) caricature di uomini che si fanno beffe di te. Non sono d’accordo semplicemente perché non è vero. Non è vero che il tuo nome ci unisce tutti in questo grande cerchio, protettivo e tranquillizzante, non è vero che il male sta solo “là fuori”, non è vero che “loro” sono pochi, e che la tua parola li può redimere e rieducare, così facilmente. Nessuno può sapere cosa avresti scritto nel tuo diario, se avessi potuto farlo, negli ultimi otto mesi della tua vita. Ma il tuo diario, secondo me, è composto anche da quelle altre duecentoquaranta pagine bianche, e da tutte le migliaia che non sono state scritte dopo la tua morte, e nelle quali, certamente, sarebbe stato scritto qualcosa di diverso.
L’ultima pagina del tuo diario, compilata il 1° agosto del ’44, subito prima che i tuoi aguzzini venissero a portarti via, si chiude con queste parole: “… cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo”. Queste le tue ultime parole. E allora io voglio considerarti soprattutto il simbolo di questo, del fatto che noi siamo sempre anche altro rispetto alla vita che viviamo. Vorremmo essere e potremmo essere, sempre, qualcosa di diverso. La presenza, al mondo, degli “altri uomini”, sembra, come tu scrivi, impedire o allontanare questa possibilità. E, molto spesso, è vero. Per te è stato terribilmente vero. Ma tu sei il simbolo anche del contrario, ossia del fatto che ogni persona, anche una fragile adolescente, nel chiuso della sua minuscola stanzetta, può aiutare gli “altri uomini”, anche senza saperlo, e senza volerlo, a trovare la strada “per diventare come vorrebbero essere e come potrebbero essere”. Certo, probabilmente non ci riusciranno, forse mai, e certamente verrà un tempo in cui il tuo diario non sarà più letto da nessuno, in cui il mondo e gli uomini saranno scomparsi. Niente è eterno.
Ma, almeno, qualcuno ci avrà provato. E forse, in qualche pagina dimenticata, persa nel vuoto, resterà la pallida ombra di questo ricordo, la memoria di qualcuno che ha provato a “diventare come avrebbe voluto essere e come avrebbe potuto essere”, facendo, in questo, da esempio a tanti altri. L’eco lontana di una domanda, un richiamo proveniente da un passato remoto. Il riflesso di una lacrima, versata in un universo arcano, ormai scomparso per sempre. O forse neanche questo, solo il nulla, non ci è dato di saperlo.

Francesco Lucrezi, storico