MACHSHEVET ISRAEL Il binomio inscindibile di norma e narrazione

Cosimo Nicolini CoenRacconta Tacito (Storie) di quando Pompeo irruppe nel Bet Ah-Mikdash trovando il Kodesh Ha-Kodashim, “vuoto”, senza una statua o un’effige rappresentante la divinità. L’aneddoto è significativo. Il ‘vuoto’ collocato al centro di un luogo reputato dall’ebraismo come il più sacro era evidentemente antitetico alla forma mentis delle culture pagane. Tale assenza, vuoto simbolico, continuò a fare scalpore e “il carattere aiconico del Dio ebraico” portò alcuni degli Antichi a ritenere che gli ebrei fossero “da considerarsi come senza Dio o atei” (Peter Schäfer Carocci, 2010, p. 53). D’altronde il vuoto del Kodesh Ha-Kodashim non faceva altro che porre in risalto, agli occhi delle genti dell’epoca, l’assenza di un ‘nome proprio’ per la divinità (posto che la pronuncia del Tetragramma era a conoscenza del Kohen Ah-Gadol per l’ufficio di Yom Ha-Kippurim) la quale, come indagato da Donatella Di Cesare (Giuntina, 2011) risolveva la sua identità in un futuro imperfetto, così impedendo qualsiasi idolatria – fosse stata anche soltanto di un nome, di un’identità propria, definibile. Non stupirà allora che Teofrasto, allievo di Aristotele, appellasse il popolo ebraico quale “razza di filosofi” in quanto “conversano tra di loro a proposito del divino (to theion)” ovverosia, commenta W. Jaeger, dell’“unico Ente altissimo” (Schäfer, p. 54). Che questa fosse una rilettura di tipo filosofico non toglie che, come ricordava settimana scorsa Massimo Giuliani in questa rubrica, Maimonide nel suo Mishné Torah parlasse del dovere di “conoscere che esiste un Essere primo”. Nel frattempo, però, il paganesimo era stato sostituito da Cristianesimo e Islam. Il popolo di ‘filosofi’ diventava, in padri della Chiesa quali Origene, popolo attaccato alla lettera, alla carnalità, lontano tanto dalla lettura spirituale del Nuovo Testamento quanto dall’astrattezza teoretica della tradizione greca. Tra l’astrattezza del Nome e la concretezza e aridità della legge sembra dunque esservi uno iato. Evidentemente l’immagine che la Tradizione fornisce di se stessa non è questa, tuttavia tale nodo si presenta anche all’interno dell’ebraismo, come l’alterna fortuna del termine ‘ortoprassi’ pare indicarci. Vi è chi lo rifiuta in toto, sottolineando come ogni obbligo derivi da una ‘credenza’ (fede?, fiducia? Emunà..) che riporta all’Essere di cui si faceva cenno con Maimonide – credenza che, tuttavia, è anch’essa indicata quale obbligazione. Vi è chi lo accetta, sottolineando come il ‘progetto’ ebraico sia coestensivo all’osservanza degli obblighi. Tuttavia in tale dicotomia (ortodossia vs. ortoprassi) si ragiona forse in termini ‘greci’, nel senso di Levinas del termine, ovverosia a partire da una distinzione netta tra teoria e prassi. In ‘ebraico’, si sa, dovremmo parlare piuttosto di Halakhà e Aggadà così riconoscendo come prassi e presupposti metafisici, norma e narrazione, formino un’endiadi inscindibile. Il che significa, per riprendere i termini visti, che non è possibile scindere i riferimenti all’ “Essere primo” dal comportamento degli uomini, ovverosia dalla “carne” e dalla “legge”. Se poi l’ebreo che non è né ‘ortopratico’, alias shomer mizvot, né ‘ortodosso’, nel senso etimologico del termine, prenda parte a tale endiadi con declinazioni sue proprie, individuali o collettive, oppure costituisca una forma differente di appartenenza all’ebraismo, è questione altra.

Cosimo Nicolini Coen