L’unione e la forza

vercelliComprendere e ricostruire, prima ancora che rievocare in astratto, la storia del Bund – Der Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Polyn un Rusland (l’Unione operaia ebraica generale di Lituania, Polinia e Russia) – la cui vivace esistenza data, ufficialmente, dal 1897 (anno in cui ebbe luogo, tra l’8 e il 10 ottobre, il primo congresso a Vilnius) agli anni Quaranta del secolo successivo – aiuta a ragionare non solo su quanto è stato ma anche su una serie di interrogativi rivolti al presente. La circostanza è offerta dalla recentissima uscita del volume di Massimo Pieri, «Doikeit. Noi stiamo qui ora! Gli Ebrei del Bund nella Rivoluzione russa» (con la prefazione di Valentina Sereni, Mimesis editore). Il sottotitolo è da tenere a mente poiché l’autore, matematico di formazione ma da molti anni prestato alla divulgazione storica di qualità, si concentra nella ricostruzione delle dinamiche, del dibattito e delle scelte operate da coloro che fondarono il primo partito operaio ebraico in età contemporanea. Delle sue vicende ci dà un resoconto lungo i suoi primi vent’anni dopo, arrivando fino al 1917. Primo punto da cui partire è l’assoluta mancanza in Italia sia di studi in proprio sia di traduzioni dell’invece apprezzabile pubblicistica esistente all’estero sulla storia del Bund. Si tratta di un vuoto che non riguarda solo la comunità degli studiosi, chiamando in causa, semmai, l’oblio nel quale l’intera vicenda di quella organizzazione è da molto tempo avvolta. Quanto meno nel nostro Paese, dove perlopiù se ne ignora la sua trascorsa esistenza. In realtà, nella dimensione peculiare che caratterizza la traiettoria del partito nei suoi anni di vivace attività, si rispecchiano le potenzialità e le contraddizioni che hanno accompagnato le clamorose trasformazioni dell’Est europeo e, in esso, dell’ebraismo di quei luoghi. Il Bund, non a caso, si inserisce all’interno di questo vero e proprio sommovimento sociale e culturale, essendone, al medesimo tempo, matrice e risultato. Nasce, al pari di tutti i movimenti ebraici dell’epoca (in primis il sionismo, suo grande antagonista), con una netta vocazione, quella di contrastare sia le condizioni vessatorie di subalternità alle quali erano condannati gli ebrei sia la necessità di non cedere alle tentazioni assimilatorie. In questo aspetto, la dialettica, anche conflittuale, tra identità e modernità viene risolta con il richiamo alla necessità di conquistarsi la libertà con le proprie stesse mani. Nella lotta operaia, che diventa conflitto guidato dall’organizzazione dei lavoratori, il Bund identificava il terreno sul quale sviluppare una nuova fisionomia identitaria, rielaborando criticamente le vecchie relazioni comunitarie che avevano presieduto fino ad allora all’esistenza degli ebrei nei territori dell’Europa orientale. In quest’ottica, quindi, riteneva che l’organizzazione politica dei lavoratori ebrei fosse un elemento imprescindibile nello sviluppo della consapevolezza di sé, non identificando nessuna contraddizione tra la propensione internazionalistica, nella quale si identificava, e il riconoscimento di uno specifico tratto nazionale all’insediamento ebraico. L’internazionalismo era la dottrina, allora sempre più diffusa tra le file del movimento dei lavoratori, per la quale l’elemento distintivo tra gli individui non era dato dalla loro nazionalità bensì dalla collocazione nella scala sociale. Coloro che vivevano esclusivamente dei frutti del proprio lavoro erano da considerarsi fratelli, a prescindere dal paese di origine. Identificare gli ebrei come componenti di una specifica nazione e, al medesimo tempo, collocare questa nazione all’interno del sodalizio internazionalista era, dal punto di vista del Bund, l’unica risposta percorribile per contrastare quelle che invece erano denunciate come propensioni “cosmopolite” espresse dalle borghesie nazionali, a partire proprio da quella ebraica. Il cosmopolitismo costituiva la via percorsa la quale l’ebraismo si sarebbe assimilato, per poi scomparire definitivamente. Premeva in questo dibattito la presenza egemonica, a tratti quasi minacciosa, delle culture slave e di quella russa, legate tra di loro dalla Chiesa ortodossa e variamente connesse al sistema di potere dei Romanoff. All’interno di questa intelaiatura culturale e ideologica riecheggiano temi della storia ebraica, messi in rilievo dall’autore: la dimensione federativa, già presente nell’esperienza delle Tribù; l’osservanza di un’unica Legge; la questione del potere e del rapporto con la terra. In altre parole, il particolarismo dell’identità per il Bund non deve essere vissuto in contrasto con l’universalismo delle idee di giustizia e di libertà. Sottolinea Pieri: «porre la diversità al centro della forma politica significava combattere un potere centralizzato che per definizione si poneva come unico e monolitico arbitro, al di sopra della pluralità delle istanze che scaturivano dalle diverse componenti dell’alleanza politica. La diversità delle identità che popolavano l’impero russo, a cominciare dall’identità ebraica, poneva al movimento socialdemocratico il problema di una struttura organizzativa del partito che fosse rappresentativa di questa pluralità». La traiettoria storica del Bund va peraltro a ricalco di questa impostazione. La sua nascita era il risultato di un ribaltamento nelle posizioni assunte dall’intellettualità militante che, dal convincimento che ci si dovesse adoperare per la formazione di un’avanguardia, era passata all’impegno politico rivolto alla generalità dei lavoratori. Il Bund, quindi, si muoveva in quattro direzioni: federare ed unire la collettività ebraica all’interno di un più ampio percorso relativo alla trasformazione della società in senso egualitario, senza che da ciò dovesse derivare la torsione delle identità nazionali; fare riconoscere la natura di nazione (e di nazionalità) alla componente ebraica dell’Impero russo, rifiutando tuttavia qualsiasi atteggiamento “nazionalista” (Mikhail Isaakovich Liber al IV congresso del Bund, nel 1901, affermò che: «Nazionale non è nazionalista. Quando una classe riconosce che appartiene ad una data nazionalità, diventa nazionale […]; nazionalista significa la somma totale di tutte le classi o la dominazione di una nazionalità sopra l’altra»); lottare contro l’antisemitismo, alimentato dalle autorità politiche e religiose, dando a questa battaglia una piegatura non solo auto-difensiva ma progressiva, ovvero interconnettendola con la più generale lotta per il miglioramento delle condizioni di vita (laddove si coglieva la natura manipolatoria dei messaggi antisemitici provenienti dai centri di potere, il cui obiettivo era quello di alimentare una guerra tra poveri); adoperarsi per fare sì che alla federazione dei lavoratori ebrei seguisse la federazione del Bund dentro il Posdr, il Partito operaio socialdemocratico russo, di cui entrò a fare parte nel 1898, dopo avere attivamente concorso alla sua fondazione. La guida di Lenin del movimento socialdemocratico impresse tuttavia una dura svolta, disattendendo quelle che erano le aspettative bundiste, ossia il riconoscimento del partito ebraico come rappresentante esclusivo degli interessi dei lavoratori ebrei. Afferma Pieri: «In Russia, la particolare storia degli ebrei russi che li tiene lontano da ogni ipotesi assimilazionista o che, comunque, fa fallire i progetti zaristi che vanno in questa direzione, contribuisce senza dubbio a creare un fertile terreno affinché la posizione bundista possa esprimersi e maturarsi. […] Coloro, infatti, che non volevano riconoscere al Bund la prerogativa di unico rappresentante del proletariato ebraico, e non potevano comprendere un mondo che era loro estraneo, tanto meno ne avrebbero potuto adeguatamente rappresentare le istanze». La visione centralista di cui il gruppo dirigente socialdemocratico era depositario causò quindi una frattura a causa della quale, nell’estate del 1903, durante il secondo congresso del Posdr, i delegati del Bund ne abbandonarono i lavori (il partito ebraico sarebbe rientrato nei ranghi dell’organizzazione solo tre anni dopo). Nell’ottica della maggioranza del partito russo, raccoltosi intorno al giornale Iskra, «Scintilla», la partecipazione all’attività militante non poteva passare attraverso la questione dell’appartenenza nazionale. Ad essa, infatti, non era conferito un valore politico, semmai concependola come un ulteriore fattore di divisione all’interno del movimento dei lavoratori. Le rivendicazioni collettive dovevano sopravanzare qualsiasi dimensione particolarista. Toccava agli organismi del partito definire, tra le diverse richieste provenienti dai lavoratori appartenenti a gruppi culturali e nazionali diversi, quali fossero quelle degne di diventare parte della più generale piattaforma politica e quali, invece, destinate ad essere accantonate. A queste posizioni il Bund rispondeva che il socialismo internazionalista non corrispondeva al cosmopolitismo. Senza un radicamento all’interno della specificità delle diverse componenti nazionali, il rischio era quello di fare fallire qualsiasi pratica politica, in omaggio ad un «utopistico centralismo». Il conflitto che andava profilandosi era quello tra «burocraticismo», ossia l’atteggiamento espresso da una parte dei socialdemocratici russi verso la gestione del partito nelle sue distinte componenti, e il diritto alla «diversità» nella costruzione di un percorso di comuni eguaglianze. La questione era per nulla astratta, richiamando semmai il problema di che cosa si intendesse con espressioni come «organizzazione di classe», quale dovesse essere il rapporto tra i fatti economici e le appartenenze culturali, come ci si dovesse porre dinanzi al perdurare di atteggiamenti antisemitici anche tra quella parte di classe operaia organizzata politicamente. Il ruolo del partito, come soggetto collettivo che anticipava la società a venire, era il fulcro delle discussioni. L’idea espressa da Lenin, Trockij e Martov che pregiudizi, come anche identità, sarebbero stati assorbiti e superati dalla lotta militante e dalla solidarietà tra proletari, nonché all’interno di un passaggio storico per il quale lo sviluppo delle forze economiche avrebbe reso antistorica l’idea nazionale, trovava per il Bund pochi riscontri effettivi. La partecipazione degli operai cristiani, sia cattolici che ortodossi, ai pogrom ne era, purtroppo, un sanguinoso riscontro. E la posizione di una parte della socialdemocrazia russa, per la quale l’antisemitismo era espressione e retaggio della «borghesia», sembrava confermare drammaticamente l’incapacità del movimento rivoluzionario di elaborare una coerente e concreta visione della specificità della partecipazione ebraica alla lotta politica. Sostituendovi l’idealizzazione di una patria comune, quella che sarebbe sopraggiunta grazie al superamento della divisione tra nazioni, poiché tale orizzonte era quello che derivava dalla stessa evoluzione del capitalismo. Per Lenin l’unica analisi possibile della società era peraltro quella di ordine economico, tralasciando i riferimenti alle specificità culturali, semmai viste come le anacronistiche vestigia di un tempo che stava per passare definitivamente. La stessa idea di «identità», nazionale e culturale, costituiva un elemento di «arretratezza e pregiudizio» a fronte della creazione di un’unica società internazionale che, dai suoi connotati originariamente capitalistici, si sarebbe poi trasformata in una libera organizzazione pienamente ed esclusivamente socialista. Per il Bund queste posizioni erano non solo inaccettabili ma prive di qualsiasi fondamento nella realtà concreta, costituendo semmai una proiezione di aspettative e desideri destinati però a scontrarsi con i dati di fatto. Il lavoro politico nel territorio, laddove più e meglio si misuravano le contraddizioni alle quali anche il movimento dei lavoratori era esposto, facevano giustizia di attese fondate sulle «leggi della storia». Le trasformazioni del capitalismo, argomentavano gli esponenti dell’organizzazione ebraica maggiormente coinvolti nel dibattito, come Vladimir Medem, non avrebbero assorbito le differenze nazionali. Qualsiasi concezione assimilazionista, inoltre, rischiava di essere in sé e di per sé «reazionaria», cancellando tratti altrimenti insopprimibili della vitalità dei popoli. La contrapposizione, quindi, non doveva essere contro le nazioni bensì nei confronti delle politiche nazionaliste. Ad un tale quadro ideologico si ricollegava il continuo richiamo alla necessità della «lotta». Il superamento della condizione di minorità e la strada per l’emancipazione richiedevano il coinvolgimento diretto ed attivo di «fratelli e sorelle nella fatica e nella lotta» (dalla strofa iniziale dell’inno bundista), anche attraverso l’autodifesa fisica, con le «squadre di combattimento» clandestine, una pratica che animò a lungo il dibattito nelle file del partito sulla legittimità del ricorso alla forza, alal quale faceva di corredo la necessità di esprimere un netto rifiuto del terrorismo (al V congresso, nel giugno del 1903, venne approvata la mozione per la quale: «Il Congresso, indicando la necessità della più energica resistenza alla violenza dei criminali, riconosce che i comitati e le altre organizzazioni del Bund devono prendere tutte le misure per badare a che al primo segno di un imminente pogrom essi siano in una posizione di organizzare la resistenza armata»). Sul tema dell’autodifesa come «atto politico» il Bund costruì quindi una parte rilevante della sua traiettoria organizzativa, intendendo l’opposizione armata alle aggressioni anche come manifestazione di controllo del territorio: «per i bundisti era parte della battaglia politica, proprio come i pogrom erano parte della politica del governo per salvare se stesso». L’idea di una società ebraica protagonista del suo destino intercettava quattro obiettivi: identificare e accomunare le lotte di emancipazione con l’attivismo militante (se non, a tratti, quasi “militare”, nel senso di rigorosa organizzazione); separare i destini del «proletariato» (ora trasformatosi in soggetto autonomo della sua storia) da quelli della «borghesia», ebraica e non, ritenuta invece compiacente e compromissoria rispetto allo stato delle cose; sottrarre alle autorità zariste e alle istituzioni locali una parte del monopolio della forza; consolidare intorno ad una piattaforma minimale (lotta economica, autogestione territoriale, protezione di sé) il senso e l’orgoglio di un’appartenenza comune, quella al partito socialdemocratico ed ebraico (l’una cosa inscindibile dall’altra). Nella temperie di inizio Novecento, la richiesta di una democrazia effettiva, promossa dal “basso” attraverso la partecipazione popolare, il repubblicanesimo (che esprimeva il rifiuto di continuare a considerare la sovranità come un attributo della regalità e quest’ultima come un potere ad investitura divina, rivendicando inoltre una rigida separazione tra chiese e Stato), la domanda di libertà reali e non solo formali, l’abbattimento dell’autocrazia, si incrociavano con una più ampia ed articolata lotta per la redistribuzione sociale della ricchezza. Il campo di verifica, per il Bund, era l’«attività rivoluzionaria», che si estrinsecava attraverso il lavoro di promozione politica «tra le masse». In questo, oltre ad esprimere una netta dissociazione rispetto alle linea ufficiale del Posdr, che esulava dal rapporto con le specificità culturali e nazionali dei territori dell’Impero zarista, enfatizzava la propria funzione organizzativa, contrapponendosi alla crescente presenza del liberalismo politico, inteso come espressione individualista e assimilazionista dell’ebraismo. Il quale, invece, non andava inteso come confessionalismo, relegato quindi alle sfera privata, così come l’accesso ai diritti non doveva avvenire in virtù di una concessione da parte delle autorità. Semmai si trattava di politicizzare l’identità ebraica, intesa come manifestazione di «Popolo» e «Nazione» piuttosto che di religiosità personale. Anche per questo, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, nel mentre si sviluppava una nuova ondata di antisemitismo, l’impegno più vivace fu devoluto alla causa culturale, intesa come imprescindibile tassello nella costruzione di un’autonomia nazionale. L’attenzione per la lingua yiddish era parte integrante di questo processo di autovalorizzazione. Il ritorno nel Posdr, durante il IV congresso del partito socialdemocratico russo tenutosi a Stoccolma nel 1906, non risolse la tensione e le differenziazioni sul tema dell’autodeterminazione nazional-culturale. Ad esso si contrapponeva la componente bolscevica, raccoltasi intorno a Lenin, che era su posizioni dichiaratamente assimilazioniste, denunciando l’inesistenza degli ebrei come nazione e la risolvibilità dell’antisemitismo nel momento in cui si fosse transitati verso una società socialista (temi ampiamente sviluppati da Stalin nel 1913 nel suo saggio su «Il marxismo e la questione nazionale»). Quando nel 1912 il Posdr, alla sua VI conferenza, sanzionò la divisione definitiva tra bolscevichi e menscevichi, il Bund si federò con i secondi. Partecipò quindi alla Rivoluzione del febbraio del 1917 ma non a quella di ottobre, guidata dai bolscevichi. Gli anni seguenti, dominati «dal terrore bianco» contro gli ebrei nel corso della grande guerra civile russa, indusse molti bundisti a militare attivamente a fianco dei bolscevichi, soprattutto combattendo nell’Armata rossa. Alla XII conferenza, tenutasi a Gomel, in Bielorussia nell’aprile del 1920, il partito si divise in due tronconi, tra la maggioranza comunista, il Kombund, e la minoranza socialdemocratica. L’anno dopo i bundisti comunisti, confluiti nel Partito comunista, si sciolsero come gruppo autonomo. Da allora in poi anche l’indipendenza della parte restante fu prima osteggiata e poi di fatto impedita. Nell’Unione Sovietica già nel 1923 il Bund aveva cessato di esistere (a partire da una decina di anni dopo molti ex membri sarebbero stati annientati nelle purghe staliniane), mentre continuava la sua attività nei territori che nel 1918 erano divenuti parte integrante della Polonia. E lo avrebbe fatto anche con l’arrivo dei nazisti, partecipando alle rivolte ebraiche. Dopo di che, lo scenario storico si sarebbe però incaricato di mutare ancora radicalmente. Ma questa diventa già parte di un’altra storia.

Claudio Vercelli

(5 novembre 2017)