Sul mondo futuro
Daniel Reichel (Moked 3 novembre 2017) cita, giustamente, le parole del Presidente d’Israele Reuven Rivlin: “La vera democrazia può e deve prevedere il disaccordo”. Parole che sono, per me, d’ispirazione per dialogare con Gadi Luzzatto Voghera, che scrive con la sua qualifica di Direttore della Fondazione CDEC un articolo che prende lo spunto dalla Dichiarazione Balfour, nel quale riassume la dinamica nazionale ebraica nei seguenti elementi: 1) La rinascita dell’ebraico; 2) La creazione di nuovi movimenti giovanili pionieristici, 3) La nascita, dopo duemila anni, di una politica degli ebrei, 4) Il rifiuto – soprattutto in Europa orientale – del modello di emancipazione borghese e liberale che aveva caratterizzato la rapida parabola assimilazionista dell’ebraismo occidentale nel corso dell’Ottocento.
L’autore vi contrappone la successiva “nascita di nuove correnti di sionismo messianico, la prospettiva possibile di uno stato «teocratico», quello stesso che Herzl escludeva nel suo saggio teorico fondativo del sionismo politico. Un percorso che apparentemente si chiude con la negazione delle proprie stesse premesse, ma anche e comunque un movimento che ha determinato mutamenti epocali nella storia di un popolo”.
Sennonché, l’ishuv palestinese non era fatto soltanto di giovani pionieri col Kova Tembel che facevano discorsi progressisti; se adottassimo questa immagine dell’ishuv sceglieremmo in realtà la sua caricatura, perché si trattava – e non poteva essere altrimenti – di una realtà composita, dove il comunismo del kibbutz conviveva con lo spirito capitalistico delle città. Il rifiuto riguardava l’assimilazione, non il modello borghese, senza il quale Israele sarebbe rimasto uno staterello incapace di sopravvivere, bisognoso di essere costantemente puntellato. Ora, che nascano nuove correnti, anche di sionismo messianico, non significa molto, se non se ne valuta il peso complessivo e la concreta influenza. Quanto alla “prospettiva possibile di uno stato teocratico”, anche qui siamo di fronte ad una eventualità; se dicessimo che Tizio in prospettiva potrebbe imboccare una brutta china, non stiamo dicendo nulla, e di concreto c’è soltanto che lo stesso Tizio potrebbe chiederci di essere giudicato sulla base di prove concrete e non di mere eventualità. Perché evocare una “prospettiva possibile di uno Stato teocratico?” Non posso dibattere su quel che sarà, perché non possiedo capacità divinatorie, ma non le possiede di certo neanche il nostro preclaro autore. L’unica certezza è che lo Stato d’Israele non ne esce bene (diciamo) e anche quando l’autore non scrive che lo sviluppo di Israele ha negato le proprie stesse premesse, ma che lo ha fatto “apparentemente”, l’immagine che ne deriva è preoccupante ancorché ingiusta. E non è risolutivo chiudere asserendo che il sionismo è un movimento che ha determinato mutamenti epocali nella storia di un popolo, perché tali mutamenti, così indicati, sono privi di un qualsivoglia giudizio di valore. Manca nella valutazione di Luzzatto Voghera, ed è una costante nella letteratura su Israele, un qualsivoglia cenno al ruolo della parte o controparte araba. Poiché non viviamo ai tempi di Rudyard Kipling, gli ebrei non possiamo essere al contempo parti e arbitri della contesa, perché le responsabilità gravano sulle due parti.
Emanuele Calò, giurista