estraneità…

Ieri ho passato molto tempo a Mea Shearim e dintorni, il quartiere “ultraortodosso” di Gerusalemme, per alcune spese e necessità di ordine religioso: teffilin, mezuzot, talled nuovo, talled vecchio da mettere a posto e forniture per una vita religiosa e piena di benedizioni per un prossimo bar mitzvà, a Dio piacendo.
Per quasi sei ore ho vissuto il quartiere come mai ho fatto nella mia vita: ho parcheggiato dietro un vicolo accanto ad un piccolo mercato lontano dal percorso turistico e pieno, ovviamente, di popolazione locale ben definita nella propria osservanza religiosa e nella propria visione politica del paese. Molte le donne coperte con scialli (sigh!), tutti gli uomini con cernecchi ed abiti che dimostravano l’appartenenza ad un gruppo chassidico piuttosto che ad un altro. Nessuna bandiera di Israele ed anzi, molte le scritte contro lo Stato, l’ideologia che ci ha portato alla sua creazione e molti, moltissimi gli sguardi su di me che indossavano una giacca marrone, un pantalone beige ed un peccaminoso cappello “Borsalino”, marrone anche esso.
Questa stessa settimana ho incontrato ben due gruppi diversi di pellegrini cattolici in viaggio dall’Italia e ho dedicato una intera serata a parlare di dialogo, a citare Rav Soloveitchik zzl e il suo saggio “Confrontation” del 1964.
Pensando a questo mi sono sentito in imbarazzo per il senso di estraneità provato a Slonim street dietro Mea Shearim e mi sono chiesto: “Se sono pronto ad incontrare e dialogare, anche faticosamente, con chi arriva dall’Italia con il proprio bagaglio di cultura cristiana che non sempre è pronta ad accettare l’esistenza di Israele, né sul piano politico, né su quello teologico, come mai non sono pronto ad accettare il mio popolo, nella sua veste di Mea Shearim, che quanto meno è sempre il mio popolo?” Ed ancora non ho trovato una risposta.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(10 novembre 2017)