Grandangolo, l’immagine ritoccata

Simone Somekh nel suo primo romanzo racconta una storia che vuole mostrare come per crescere sia necessario avere il coraggio di cambiare, soprattutto se si è nati in una comunità haredì. Ezra Kramer, il protagonista, ha una grande passione per la fotografia e non vuole ignorare il richiamo di un mondo che è vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo, ed è tutto da scoprire. Una storia che è un percorso di scoperta e di emancipazione sia religiosa che sessuale attraverso mondi molto differenti tra loro, e lontani. Si passa dalla comunità haredì di Brighton alla New York dell’alta moda, dalla primavera araba del Bahrein alla trasgressiva e libera Tel Aviv.

Provaci ancora, Simone

Con Grandangolo, la sua prima opera letteraria, Simone Somekh firma un libro importante e necessario. Il suo dare voce a una generazione disperatamente silente e incapace di esprimersi, la sua abilità di riaprire un dialogo fra le generazioni all’interno del mondo di casa nostra, merita non solo una lettura attenta, ma anche una riflessione seria. Una lettura da consigliare a tutti e in particolare ai tanti che nell’ebraismo italiano si cullano in un limbo di incerte fantasie identitarie e confuse consuetudini, evitando spesso di domandarsi su quale terreno stiano effettivamente appoggiati i loro piedi e quali problemi reali devono affrontare le giovani generazioni. Dal punto di vista della mia generazione, che è ormai quella dei padri, più che dei figli, questo libro, certo importante e necessario, non è tuttavia parso convincente. L’atto d’accusa da parte di una generazione cui ci siamo sforzati di offrire tutto il meglio (la sicurezza, la qualità della vita, i viaggi, gli studi migliori), ma a cui abbiamo dimenticato di dire che non c’è amore che non possa dire il suo nome, tiene, e mi pare salutare.
La prova narrativa no.
Perché la letteratura ricalca molte delle leggi della vita. L’ossessiva ripetizione di stereotipi importati dall’armamentario della cultura dominante (a cominciare dalla continua ripetizione del termine “ultraortodosso”) non aiuta a far uscire dall’ombra l’umanità dei vari personaggi. Tutti sbagliamo, o esageriamo, o ci dimentichiamo di nutrire di passione e compassione i nostri ideali. E gli ebrei ortodossi americani evocati in Grandangolo certamente possono soffrire anche di questo. Ma a nessuno, nella vita e nella letteratura, dovrebbe essere negata quella complessità e quella contraddittoria umanità che caratterizza la vita ebraica di tutti.
In un mondo di stereotipi se i protagonisti si riducono a ombre sbiadite anche il confronto necessario fra le generazioni e fra le diverse componenti della società ebraica corre il rischio di perdere il suo slancio e di smarrirsi nel frusciare dei luoghi comuni di carta patinata.

Guido Vitale

L’immagine ritoccata

C’è qualcosa di post-moderno nel romanzo di Simone Somekh, Grandangolo: è come se raccontasse di cose che conosco già, ma con una angolatura nuova, pop e dolorosa assieme, un po’ come – diciamo – Andy Warhol. Più che a un film, assomiglia a una serie TV, in cui tutto avviene molto rapidamente, i personaggi mandano avanti la trama ma non evolvono, tranne il protagonista, che invece cresce e cambia nel corso della vicenda. Vicenda che, è presto detto, è quella del figlio unico, ribelle con qualche talento, di una coppia di ebrei americani divenuti haredim, cioè ultra-ortodossi, come dicono i giornali con imperfettissima traduzione. Ciò che è ultra, a casa Kramer, la famiglia di Ezra, il protagonista, non è infatti la doxa, bensì la prassi, che li condiziona in ogni minuto, aspetto della vita, nell’ossessione di non essere accettati pienamente da una comunità per la quale resteranno sempre gli ultimi arrivati, da guardare con sospetto. Con orrore dei genitori, della scuola e del rabbino Hirsch, Ezra fabbrica immagini, e lo fa con una Nikon che tiene nascosta in camera sua, ritraendo la bellissima sorella di un compagno di scuola, clandestinamente, nei bagni del suo liceo. Ritrarre è proibito, restare da soli con una donna anche di più. Le immagini però sono belle: Ezra diventa il fotografo dei matrimoni della comunità. Vi è, nel romanzo, un incontro direi sfiorato, o forse “mancato”, con l’omosessualità, parola che non si può neppure pronunciare nel sobborgo residenziale di Boston in cui Ezra è cresciuto. I Kramer ottengono in affido un coetaneo di Ezra, orfano di madre, che diventerà una sorta di ossessione per il ragazzo, la goccia che fa traboccare il vaso di un’esistenza insostenibile. New York è sempre New York, con le sue
promesse di libertà e successo, la fatica di sperimentare l’una e inseguire l’altro, il cinismo e l’arrivismo delle persone, la sensazione perenne di inadeguatezza e solitudine. Il coinquilino asiatico “nerd”, perennemente incollato al computer, che parla una sola volta in tutto il romanzo, ma lo fa al momento giusto e per offrire un ottimo consiglio, quello di rivolgersi a uno psicoterapeuta, è una trovata da cui io lettrice speravo di ottenere di più. Invece si finisce subito con un noioso psichiatra che prescrive frettolosamente antidepressivi, e capiamo che Woody Allen è lontano. Ci troviamo semmai più in area Sex and the City, ma con minor leggerezza, comprensibilmente. Ho apprezzato l’alternarsi disinvolto di toni diversi, uno stile per vari aspetti sperimentale, con flussi di coscienza e titoli che sono anche la prima frase del capitolo. La difficoltà di trovare una “zona grigia” dell’ebraismo, il tentativo di collocarsi a un livello di osservanza sostenibile, che consenta di mantenere la tradizione e il rispetto dei precetti senza chiudere fuori il mondo sono temi fra i più affascinanti del romanzo. Solo chi ci è passato personalmente può rabbrividire e assieme sorridere leggendo del sogno in cui Ezra addenta un hot dog non kasher, o della prima volta in cui – con una sorta di ribrezzo misto ad ebrezza – striscia a tutta velocità la tessera magnetica e salta sulla metropolitana durante la festa di Sukkot, cercando di non pensare a ciò che sta facendo e ai limiti che sta irreversibilmente valicando. Ammettere di non essere felici è difficile in un mondo di foto su Facebook e persone perennemente entusiaste. Forse in questo sta la forza di Grandangolo: mostrare che la vita è difficile anche quando hai vent’anni, sei a New York e hai un sogno. Come in una foto non ritoccata.

Miriam Camerini

Sfida da raccogliere

La storia è quella di Ezra Kramer, un ragazzino che fa della sua vita una lunga e sofferta avventura. O forse è la vita a fare di lui un avventuriero: un po’ per scelta, un po’ per natura, un po’ per curiosità, Ezra non si dà (e non ci dà) mai pace. Scappa, evade, poi torna, si perde e si ritrova, crea e distrugge alla velocità della luce; ma facciamo un po’ di ordine. Tutto ha inizio con un piccolo regalo, una macchina fotografica, un innocuo giocattolo che presto diventa oggetto del peccato, proprio come l’arma di un delitto. E se si fosse trattato di un delitto, forse, il nostro protagonista non avrebbe suscitato tanto scalpore. I suoi scatti presto diventano talmente noti e temuti all’interno della comunità ebraica ultraortodossa di Brighton, che l’espulsione dalla Yeshiva in cui studia non basta per placare gli animi roventi. Ezra comincia così un’epopea che lo condurrà a New York, lontano anni luce dalla bolla fatta di abiti rigorosamente neri e gonne lunghe fino al pavimento in cui è cresciuto. E noi partiremo per questo lungo viaggio insieme a lui, trascinati nel suo mondo audace e a tratti trasgressivo, persi tra le pagine di Grandangolo e tra le riflessioni del suo autore esordiente, Simone Somekh. Quasi come fosse un Asher Lev dei giorni nostri, Ezra Kramer non riesce a dar freno alla sua passione per la fotografia. “Mi chiedo dove abbiamo sbagliato”, si domanderà il padre. “Dio ci sta punendo, me lo sento”, risponderà la madre in preda alle lacrime. Eppure ci sarà chi lo definirà “Un ragazzo molto dotato”, come la brillante zia Suzie, o chi gli dirà che “Sei la migliore persona che io abbia mai conosciuto”, come l’inseparabile fratello adottivo Carmi. Tutti i personaggi recitano la loro parte. I genitori sono come quelli veri, non come quelli dei film. Gli amici e i colleghi potremmo tranquillamente associarli a persone a noi vicine. Tutto è folle e caotico nella mente dell’autore, ma nulla è surreale. Le gioie comportano sempre dei piccoli dolori ed i successi si trascinano sempre appresso infiniti fallimenti, proprio come nella realtà. Dopo ogni una salita e, soprattutto, non esistono scelte giuste e scelte sbagliate. Così, proprio quando tutto sembra andare storto, quando la luce in fondo al tunnel tarda ad arrivare ed Ezra desidera morire piuttosto che rassegnarsi alla vita ostile e nemica a cui è condannato, tutto cambia e tutto si trasforma. Capitolo dopo capitolo, il lettore impara ad uscire dalla propria comfort zone per navigare in acque torbide e mai prevedibili. Bisogna solo fare attenzione a non annegare.
La vita di Ezra, tuttavia, è di relativa importanza se si considera il contesto, così attuale e complesso, e i temi trattati all’interno della trama. Non aspettiamoci giri di parole, perché Grandangolo non ne ha. Con un notevole strike, Somekh riesce a sfatare tabù con grande maestria e a parlare di omosessualità, fanatismo religioso, libertà di stampa e autolesionismo con disinvoltura e grande lucidità; specialmente se consideriamo la sua giovane età. Ed ecco il segreto: Grandangolo non è un libro che parla di giovani, bensì è un libro che parla da giovani.
La differenza è sottile, lo so, ma c’è, esiste, ed è essenziale per capire l’opera. Per intenderci, dunque, Grandangolo non è un libro che parla di New York, come chi sognerebbe la Grande Mela dal lato opposto del grande schermo, ma è un libro che riemerge dal subconscio di chi la città l’ha vissuta sulla propria pelle. Il dialogo invisibile che intercorre tra l’autore ed il protagonista, è ciò che rende la trama credibile ai nostri occhi. Grandangolo è un libro ebraico senza avere la pretesa di esserlo, e se non per i suoi contenuti, per la sua instancabile ricerca di verità. Emozionante, ambizioso e appassionante, ci permette di affacciarci ad un mondo meno distante a noi di quanto possiamo pensare. È lì, dietro l’angolo, un mondo che aspetta di essere esplorato, criticato e poi abbracciato. Simone Somekh e il suo talento ci stanno lanciando una provocazione, nonché un’interessante sfida. Sta a noi ora raccoglierla. Sta a noi guardare oltre il grandangolo della vita. Io l’ho fatto, e gliene sono grato.

David Zebuloni

Le identità multiple oggi

Il ventunesimo secolo appare sempre più come l’era dei mondi che si intrecciano e delle identità che si sovrappongono. Complici le nuove tecnologie che hanno
reso più rapidi ed economici viaggi e comunicazioni, noi che siamo stati bambini negli anni Novanta, adolescenti in quelli Duemila e ci costruiamo una vita in questi inaspettatamente complicati Dieci siamo abituati a spaziare tra paesi diversi e domande su chi vogliamo essere e cosa diventare, magari saltando su qualche
aereo per capirlo. Così fa anche Ezra, il protagonista di Grandangolo, che parte però da una prospettiva diversa, quella di una comunità ebraica haredì (termine che letteralmente significa “timorato” ma viene comunemente tradotta in italiano come “ultraortodosso”) nei sobborghi di Boston. Così il primo mezzo di trasporto alla ricerca della propria identità diventa la metropolitana che porta il giovane a un liceo ebraico “moderno” in città, e poi il bus verso la New York in cui qualsiasi ragazzo con la passione per la fotografia come Ezra sogna di realizzarsi. Ben presto arriveranno i voli intercontinentali, per andare avanti, ma allo stesso tempo tornare indietro, e scoprire che c’è da apprezzare anche l’identità che si credeva di aver lasciato alle spalle.
Nelle pagine scritte da Simone Somekh – un amico e un collega pure abituato a prendere aerei e a fare domande – si affacciano tanti temi importanti che animano oggi il dibattito delle comunità ebraiche a livello mondiale. Il rapporto tra ebraismo haredì, Modern Orthodox, conservative, reform. Il confine tra libere scelte di vita e scelte dettate dalle regole della propria comunità di appartenenza, o dalla pressione dei genitori. L’approccio della religione ebraica alle persone LGBT, ai loro diritti e all’accoglienza. Davanti all’obiettivo della macchina fotografica di Ezra sfilano però anche interrogativi dedicati a tutti i Millenial: cosa bisogna essere disposti a sacrificare per fare carriera – e cosa no; l’importanza dell’amicizia, il significato del contatto fisico, la capacità di dare e di ricevere alle persone importanti della propria vita, la necessità di lottare per realizzare i propri sogni anche contro ogni aspettativa. Un tema su tutti penso valga la pena di approfondire, quello della rabbia. Ezra ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, ed è arrabbiato. Forse ha ragione a esserlo, ma l’ira che si porta dietro per tutto il libro, riemerge e prende il controllo al primo accenno di contraddizione o di ostacolo, e diventa un limite e una debolezza. Ecco forse lui e un po’ tutti noi, giovani e meno giovani, oggi abbiamo accesso troppo facilmente a sentimenti di rabbia, ogniqualvolta la vita si rivela più difficile di quanto le pubblicità e i profili altrui sui social network, ci danno l’illusione che dovrebbe essere. Dimenticandoci di quegli aerei, di quelle tecnologie, di quelle possibilità che abbiamo di inseguire le risposte alle nostre domande che forse diamo troppo per scontate, che un tempo erano impensabili. Forse proprio per questo in passato era meno diffusa la frustrazione che sembra aver avvolto il mondo con conseguenze terribili, politiche, sociali, spirituali. Ecco lo spunto che su tutti mi porto via da Grandangolo: la vita può essere dura, ma risolvendo i risentimenti si riesce a fare molto, per noi stessi e per gli altri. E poi per ritrovare l’entusiasmo, possiamo andare in giro per la movida soleggiata di Tel Aviv, sorseggiando una spremuta delle famose arance di Jaffa. Così fa Ezra, e in fondo non è affatto una cattiva idea…

Rossella Tercatin

(8 novembre 2017)