Terra e manganello

vercelliSe c’è un “insegnamento” da trarre nella brutta vicenda accaduta ad Ostia, laddove un personaggio che apparterrebbe al pulviscolo delle organizzazioni criminali ha dato robusti colpi di cranio contro un giornalista, il tutto accompagnato da un manganello in bella vista e da una telecamera che platealmente riprendeva la scena, è che il “territorio” (qualunque esso sia, a partire dalle periferie urbane) se lasciato a sé si riorganizza per il tramite di gruppi e coalizioni basate sulla commistione tra politica, malaffare e violenza. Si tratta di una specie di welfare alternativo a quello dello Stato. Il controllo di questi segmenti di collettività, più o meno ampi, che sono o si sentono lasciati alla mercé delle circostanze, cercando una protezione e alcune elementari tutele, non importa se fondate su una catena di abusi e sopraffazioni, indica quindi molte cose. Senz’altro segnala ancora una volta il fatto, in sé abbondantemente risaputo, della pervasività del fenomeno mafioso e di come esso goda di una interfaccia con una parte della politica. Non di meno, indica come gli individui, quando si percepiscono “soli”, ossia senza una qualche forma di riconoscimento e curatela da parte delle istituzioni, propendano per la ricerca di organizzazioni, o comunque di gruppi di potere, che ne garantiscano una qualche cornice di difesa. A prescindere dalla legalità e dalla legittimità che a queste come a quelli gli è riconosciuta dalla legge. Per parte nostra non si tratta, in un malinteso senso delle cose, di fare una contorta apologia pseudo-sociologica del malaffare ma di capire quali siano le dinamiche che si innescano in quelli che, sempre più spesso, paiono essere anche in Italia i sopravanzanti «territori perduti della Repubblica», dove al ritrarsi dello Stato (o alla sua antica inesistenza) si sostituiscono associazioni criminali che, in qualche modo, si incaricano di costruirsi una diffusa base di consenso fungendo anche da redistributori delle risorse collettive. Un terzo aspetto da prendere in considerazione è quindi il fatto che la “politica” del e nel territorio, quando le condizioni sono quelle di una persistente patologia delle relazioni sociali e comunitarie, assume frequentemente le vesti di consorzio criminale. Per essere chiari, anche qui senza stabilire immediati nessi di reciprocità, qualche analogia tra lo sviluppo e il radicamento dei gruppi islamisti in Medio Oriente e il ritorno del neofascismo in Europa è qualcosa di più di una fantasia. Non a caso quest’ultimo si presenta soprattutto come “fascismo sociale”, che parla a collettività disagiate o comunque impaurite. Ad esse rivolge infatti le sue attenzioni, si fa carico – non importa se in maniera del tutto distorta – delle loro rimostranze, funge da amplificatore di tensioni preesistenti offrendosi come soluzione, ancorché tanto improbabile quanto velleitaria. Nel mentre, fa strame del pluralismo delle società sulle quali mette, per così dire, il cappello. Non è meno vero che l’islamismo radicale, il quale ha sempre presentato la doppia faccia di organismo di mobilitazione militante e di soggetto del controllo selettivo del territorio, ha alla sua radice una visione ideologica tanto brutale quanto totalitaria. La cornice di questi processi è comunque sempre una ed una sola: chi si sente isolato, chi avverte la sua marginalità, chi si vive come declassato – e da ciò trae il convincimento di non avere alternative – è più facilmente propenso ad aderire al patto omertoso che contraddistingue la presa che clan e organizzazioni illegali esercitano su consistenti porzioni di territorio. D’altro canto, la collusione tra radicalismi e mafiosità non è una cosa che dati ad oggi. Altrimenti, sarebbe un po’ come scoprire l’acqua calda. Una politica che continui a pensare che i bisogni del territorio siano una funzione che verrà soddisfatta da “altri”, è destinata non solo a risultare perdente ma anche ad agevolare l’espropriazione concretamente esercitata dalla criminalità economia e politica. Ed a fermare tutto ciò non basteranno le manifestazioni di piazza, pur necessarie così come l’esecrazione morale. Poiché, più ancora del violento gesto di sopraffazione esercitato dal maschio alfa dell’aggregato tribale, colpiscono i ripetuti giudizi di assenso manifestati nelle ore e nei giorni immediatamente successivi, da un robusto numero di astanti, accomunati dall’idea che la legge sia una cosa che si fa da sé, affidandola al più potente. Un bel passo all’indietro, di qualche secolo, che rischia di accentuare quelle secessioni di fatto che si stanno consumando in una parte delle nostre società continentali, dove lo Stato sparisce e ad esso si sostituiscono i mazzieri del neofeudalesimo che avanza.

Claudio Vercelli

(12 novembre 2017)