Qui Torino – Il convegno
Sionismo, uno sguardo al presente
Una giornata densa, fatta di riflessioni pungenti e analisi amare. Queste le sensazioni che si respirano in chiusura del convegno su Israele e il sionismo dal titolo “Gli anniversari, la Storia, la realtà di oggi”, organizzato dal Gruppo Sionistico Piemontese assieme al Keren Kayemet LeIsrael e patrocinato dalla Comunità ebraica di Torino presso il Circolo della Stampa e che ha visto alternarsi al tavolo dei relatori studiosi della realtà mediorientale. A moderare il dibattito e introdurre gli ospiti Vittorio Robiati Bendaud.
Perché il Medi Oriente di oggi è così diverso? A questa prima domanda ha risposto attraverso un video di alcuni minuti Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, passando in rassegna gli stati limitrofi al territorio d’Israele. Si comincia dal Libano, oggi sempre più simile a una propaggine dell’Iran, ci si sposta in Siria, o meglio quello che ne resta, cioè una miriade di milizie in lotta tra loro. C’è poi la Giordania, in apparenza lo stato più stabile, ma al suo interno risiedono molteplicità di gruppi jihadisti. Il Sinai, anch’esso in scacco per via della presenza jihadista. E poi Gaza. La costante instabilità dei confini d’Israele richiede la messa in campo della “dottrina del castello”, spiega Molinari, che implica difesa sì, ma prontezza nel rispondere in caso d’attacco. Ruolo chiave nell’inasprimento di uno scenario geopolitico sempre più precario è giocato dall’Iran, che si giova della frammentazione sunnita per avvicinarsi alle coste del mediterraneo creando un vero e proprio ponte terrestre.
Alla stessa domanda ha cercato di dare risposta anche il giornalista de La Stampa, Domenico Quirico. “Vicino Oriente e non Medio Oriente”, così Quirico apre il suo intervento, dal tono incalzante e dalle parole dense che costringono chi le ascolta a riflettere invece di fuggire da una realtà troppo scomoda e solo all’apparenza così lontana. Una realtà, prosegue, che ha un prima e un dopo e quest’ultimo è sancito dal giugno del 2014, data in cui è avvenuta l’istituzione del Califfato a Mosul. Nulla è più come prima e mette in guardia dalle narrazioni semplicistiche “che non fanno altro che farci ingurgitare ottimismo”. L’avvento del Califfato ha quindi segnato un punto di rottura rispetto a ciò che era stato sancito un secolo prima con l’accordo Sykes-Picot, che vedeva Francia e Regno Unito coinvolte nella definizione delle rispettive sfere d’influenza in Medio Oriente. Dal 2014 quindi la conformazione geopolitica è stata stravolta in maniera irreversibile, introducendo sulla scena mondiale un altro totalitarismo, che “governa e domina su uomini semplificati”, che “si basa sulla dicotomica distinzione tra impurità e purità”. Una partizione brutale, incalza Quirico, che differenzia l’autoritarismo dal totalitarismo: “L’impuro non è un cittadino di serie b, ma è qualcuno che deve essere eliminato fisicamente”. E in tutto questo l’Occidente, mai stato così debole, ha lasciato che questa transizione avvenisse, perché scambiata per una delle tante tempeste del mondo islamico che si poteva poi in un secondo momento utilizzare per scopi personali.
L’intervento dello storico francese Georges Bensoussan si è invece concentrato sul concetto di Sionismo che va in definitiva tenuto lontano dal concetto di colonialismo. “Per poter scindere in maniera netta i due processi”, afferma, “bisogna intendere la storia come impegno di riconoscimento, se questo non avviene allora si tratta di ideologia”. La tesi di Bensoussan ruota attorno al concetto che la condizione stessa degli ebrei prima della rinascita, non nascita ex novo, nel 1948 dello Stato d’Israele fosse di per sé “colonizzata” nel senso classico del termine: ebreo come essere succube rispetto agli altri, dove la sua umiliazione avveniva seguendo un sistema codificato, ben diverso dal sadismo ordinario.
Secondo elemento riguarda le modalità con cui è avvenuta la compravendita delle terre da parte dei pionieri: mossi da uno scopo pratico e non ideologico di comprare le terre e coltivarle da sé. Un colono non compra ma conquista, non coltiva ma sfrutta le popolazioni che in quelle terre risiedono.
“Il Sionismo”, conclude, “va quindi interpretato come movimento di decolonizzazione e di liberazione psichica dell’immagine che l’arabo ha dell’ebreo: inferiore e disprezzato”.
È poi la saggista Bat Ye’or a dare il proprio contributo, soffermandosi sull’analisi del contesto europeo rispetto alla questione mediorientale a partire da un’altra data ben precisa: il 1967. Dopo la Guerra dei sei giorni ci fu un cambio radicale di sguardo dell’Unione Europea nei confronti dello Stato di Israele. Dopo quella data sono nati movimenti di solidarietà e avvicinamento al mondo arabo che metteva in campo una propaganda anti israeliana. Il cambiamento si fece più netto e irreversibile con la Guerra del Kippur e la crisi petrolifera, “pretesto per i novi paesi della comunità europea per associarsi alla politica francese che vedeva un consolidamento delle relazioni con la Lega araba”, spiega.
Le condizioni imposte dalla Lega araba per porre fine al blocco petrolifero erano: il riconoscimento dello Stato palestinese, l’islamizzazione di Gerusalemme e il riportare i confini d’Israele nelle linee del 1949. Dall’altra parte gli obiettivi dell’Unione Europea erano: creare un blocco euro arabo che avrebbe dato all’ Europa un ruolo più potente sulla scena mondiale, oltre alle forniture di petrolio e gas. Da quel momento in poi prende forma una struttura per il dialogo euro arabo: cooperazione che si basava sull’antisionismo e sulla distruzione dello stato israeliano da sostituire con quello palestinese .I progetti per mettere in atto questi piani venivano analizzati da commissioni e sottocommissioni, dove l’unione araba interparlamentare si affianca alla Commissione europea per stabilire una politica di collaborazione economica, culturale e sociale. Così si inizia a delineare l’idea di “Eurabia”, dove le volontà delle Lega araba si legano ai desideri della parte europea, e dove la base ideologica affonda nel “palestinismo”.
Anche l’ultimo intervento di David Meghnagi, assessore alla Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. prende le mosse da quello che è stato definito un punto di non ritorno delle relazioni diplomatiche tra Europa e Stato d’Israele. “Gli anni Settanta”, spiega Meghnagi, “vedono un rovesciamento di prospettiva dell’ebreo: da vittime di ieri a carnefici di oggi, dove i palestinesi sono diventati i nuovi ebrei”. Questo è il risultato di una costruzione narrativa altamente tossica che continua a ribaltare i punti di vista tra buoni e cattivi. Meghnagi porta ad esempio due dichiarazioni di Charles de Gaulle, una del 1962 e una del 1967: si assiste a un capovolgimento speculare di immagine, dove addirittura si accusano gli ebrei di strumentalizzare la Shoah per pretendere diritti in senso riparatorio. Ecco la nuova terribile accusa. Entra così in gioco un relativismo portato all’assurdo. “Narrazioni che si autoescludono sovrapponendosi, cercando di semplificare in modo erroneo i processi storici, dimenticandosi che questi ultimi sono risultati di dinamiche complesse”. “Prima di chiedersi il perché di tali fenomeni”, conclude, “è necessario analizzare il come siamo giunti a uno scenario del genere, dove in pericolo non c’è solo l’identità ebraica, ma il nostro sistema di convivenza”.
Alice Fubini
(13 novembre 2017)