NARRATIVA Il vecchio Auster è giovane
Paul Auster / 4321 / Einaudi
Ah, la mesta routine dello scrittore di successo. Nessuno si aspetta da te più di quel che hai già dato. Nessuno condivide il tuo ottimismo sulla possibilità di aggiornarti, di più: superarti. Nessuno — neppure tua moglie — crede che ormai tu possa davvero stravolgerti. Sei un brand, vecchio mio, come un’acqua di colonia di cui alcuni non possono fare a meno ma che altri trovano stomachevole. Puoi rinnovare la forma della boccetta, il packaging, ma come modificare l’essenza? Nei vaneggiamenti del dormiveglia ti cogli a rimpiangere i tempi in cui ancora nessuno ti conosceva, i sogni di gloria degli esordi, quando era certo che avresti apportato un deciso rinnovamento alla narrativa contemporanea. Arrivi a invidiare chi è ancora inedito e spiantato. Vagheggi stili di vita monastici, salingeriani. Farnetichi sul ricostruirti una verginità con uno pseudonimo. Macché, verresti smascherato: non solo tu sei un brand, lo è anche il tuo stile, le storie, il modo di raccontarle. Sei fritto, imprigionato, un sopravvissuto. Certo, non mancano le soddisfazioni. I buoni anticipi garantiscono una discreta prosperità alla tua famiglia, e a te l’opportunità di dedicarti a un libro per anni; poi c’è l’affetto mai venuto meno dei fan («Quando esce il suo nuovo romanzo?» ti apostrofa la vecchietta in metropolitana). Finché il nuovo romanzo non esce davvero, le testate fanno a gara per mandare qualcuno a intervistarti. Con un po’ di fortuna può capitarti anche lo scrupoloso cronista che ha letto per intero il libro, e nei casi più fausti che ha letto anche i precedenti. Passeggiando in centro con il cane t’imbatti nella nuova fatica che brilla dietro la vetrina di una libreria al fianco di altri malcapitati; la trovi pure sul giornale della domenica, una pubblicità dai toni trionfalistici neanche annunciasse l’arrivo del Messia, corredata da uno strillo di un amico scrittore con cui giochi tutti i sabati a tennis. I sostenitori di sempre ti tributano gli onori che credi di meritare, i detrattori trovano conferma a perplessità ataviche, mentre gli hater del web fanno strame di te e di ciò che resta della tua reputazione. Il teatro scelto per la prima presentazione ha esaurito i posti ma ti sembra che la fila per la firma-copie si assottigli più rapidamente rispetto all’ultima volta. Per qualche settimana — o nella migliore delle ipotesi, per un paio di mesi — il romanzo resiste in classifica con una certa dignità. L’editor ti chiama per dirti che tutti parlano bene del tuo libro, lui si aspetta faville per Natale. l premiano, ti traducono in lingue di cui non capisci neppure l’alfabeto, un regista greco molto famoso in patria vorrebbe comprare i diritti cinematografici e ambientare la tua storia nel Peloponneso (bene, altri soldi, volevi cambiarti l’auto); vieni a sapere che una bella studiosa norvegese sta facendo una tesi di dottorato sul tuo terzo romanzo, quello che cambiò realmente le cose (almeno per te). Eppure la sensazione di gratuità e insensatezza non smette di tormentarti. Meno male che c’è il libro su cui stai già lavorando. Non hai dubbi: sarà migliore di tutti quelli che hai scritto e allora gliela farai vedere tu, a quei bastardi! Chissà perché è così che mi veniva di immaginare la vita di Paul Auster mentre terminavo il suo titanico (come altro definirlo?) nuovo romanzo. Riflettevo su come sia capitato per caso nelle mie mani, come altrimenti non lo avrei letto, e su come dopotutto sia questo uno dei suoi temi sensibili, il nucleo romanzesco per antonomasia: niente come una circostanza fortuita può cambiare radicalmente il corso di vita di un individuo. f Conosco l’opera di Auster abbastanza bene, ma non dettagliatamente. Ho amato alcuni suoi libri (L’invenzione della solitudine, Follie di Brooklyn) e sono rimasto un po’ deluso da altri (la Trilogia di New York). Certo non è nella mia top five di scrittori viventi, e neppure nella top ten a pensarci bene. Per questo un suo nuovo libro può uscire senza che me ne accorga. Quest’ultimo (pubblicato da Einaudi) mi è caduto sul piede in libreria mentre compulsavo altro. Io e il mio alluce siamo rimasti sconvolti dal peso. Prima mi ha catturato il titolo: 4321, una specie di countdown; poi la mole, quasi mille pagine. Come tutti i patiti di narrativa ho un debole per i romanzoni e più in generale per le ambizioni smisurate. Lo compro, lo inizio nel taxi che mi porta a un appuntamento e mi pare subito che si tratti di una cosa enorme (e non solo per le dimensioni); una cosa che non mi sarei aspettato dal Paul Auster che conosco, apprezzo ma per cui non stravedo; una di quelle cose che mi fa dire: non vedo l’ora che finisca questo appuntamento perché voglio rintanarmi in casa a leggere; una di quelle cose che mi fa pensare che c’è sempre speranza per ciascuno di noi, speranza di superarci. Un tempo i grandi romanzi mi facevano venire voglia di leggere, oggi mi fanno venire voglia di scrivere. Entusiasmi diversi, va bene, ma in un certo senso connessi e complementari. L’attacco sembra il calco di una gustosa storiella yiddish. Uno di quegli apologhi tanto cari ai fratelli Coen che danno in pochi minuti il senso dell’intero film. Narra la nascita fortuita e strampalata di un cognome americano di una famiglia ebraica originaria di Minsk appena sbarcata a Ellis Island: dal molto russo-giudaico Reznikoff al molto anglo-protestante Ferguson. La prosa sonora, sapida, vertiginosa e l’ambientazione brulicante del grande esodo aschenazita dell’inizio del secolo scorso fanno pensare a Chiamalo sonno di Henry Roth, ma anche un po’ a Augie March di Bellow. Il protagonista si chiama Archie Ferguson ed è il nipote di quel coraggioso emigré che ha visto il suo cognome stravolto in un modo così ridicolo. Archie è un aitante giovanotto del New Jersey: bello, audace, sportivo e con parecchio sale in zucca. Uno che potrebbe essere il fratello minore di Nathan Zuckerman, meno erotomane forse ma neanche tanto, meno legato alla famiglia e al mondo ebraico, forse perché gli sono stati risparmiati i difficili Anni 30 e perché i suoi hanno fatto fortuna. Seguo con passione le prime peripezie infantili. «Nessun talento per la musica, dunque, nemmeno per il disegno e per la pittura, orrendamente negato a cantare, ballare e recitare, ma per una cosa era portato: il gioco, il gioco fisico, lo sport in tutte le sue varietà stagionali, baseball con il caldo, football con il gelo, pallacanestro con il freddo, e a dodici anni già praticava in squadra tutti questi sport e giocava tutto l’anno senza interruzione». Ecco che tipo è Archie Ferguson. Finché avviene qualcosa di strano, che registro con stupore. Lo zio scapestrato di Archie ottiene una grossa vincita a una scommessa, ma ecco che qualche pagina dopo quello stesso zio perde una scommessa che ha tutta l’aria di essere la medesima vinta qualche capitolo prima. Bah, mi sarò sbagliato. Non metto neppure in conto che a sbagliare sia stato l’autore, gli editori americani, il traduttore Italiano. Proseguo felice perché m’incanta la capacità di Auster di restituirci l’idillio degli anni più belli dell’umanità in quel Paese prospero e magnifico. Gli manca il senso del tragico forse, non avverti gli struggimenti che dovrebbero accompagnare certe rievocazioni, ma buon Dio è la migliore narrativa che uno possa aspettarsi da un grande autore settantenne e arzillo. La cosa migliore che abbia mai fatto Auster, e una delle migliori uscite negli ultimi tempi, non solo in America. Ma ecco un altro inciampo, stavolta gigantesco. Il padre di Ferguson muore in un incendio e poche pagine dopo eccolo di nuovo vivo e vegeto sgambettare per le vie del New Jersey. È allora che mi rendo conto del trucco. Fregato dalla mia resistenza a leggere risvolti di copertina e recensioni, capisco solo strada facendo che non si tratta di un romanzo soltanto, bensì di quattro, spavaldamente intrecciati. Mica le vite parallele di Archie Ferguson, ma per così dire le sue vite possibili. Lo stratagemma è lo stesso utilizzato nelle saghe di Topolino con i finali multipli che compravo da ragazzo, o in Sliding doors, il famoso film di Peter Howitt. Allora comprendo anche la titolazione così bizzarra e ridondante, quasi da saggio accademico (1.1, 2.1, 3.1, 4.1 e via a seguire). È il solo aiuto prestato da Auster affinché il lettore non si perda in questo labirinto intricatissimo. Chi ama le narrazioni fluide, volendo, può anche seguire una storia alla volta, ma lo sconsiglio: almeno nei romanzi lasciateci un po’ di follia e libertà. Dopo un po’ non fai neanche più caso ai capitoli, leggi e basta. Non riesci più a smettere. Salti da un Ferguson all’altro, notando che la sola cosa che li tiene assieme è l’amore per una ragazza, Amy, e la passione per gli sport e per l’arte (il romantico Auster perde il pelo ma non il vizio). Del resto, non tutti gli Archie Ferguson se la cavano alla stessa maniera. Ce n’è uno che deve dire addio ai suoi sogni di gloria sportiva dopo aver perso tre dita in un incidente automobilistico, e un altro addirittura che muore prematuramente. Per quanto banale possa sembrare ciò che sto per dire, ogni grande romanzo è una messa in discussione del genere romanzo, e talvolta persino un vero e proprio atto d’accusa. Non c’è niente di geniale, niente di totalmente inedito nel meccanismo escogitato da Auster. Il dato sensazionale è semmai nel modo in cui ha saputo gestirlo e cavalcarlo. Che audacia, quale inventiva, quanta profumata carne al fuoco! Talvolta hai l’impressione che l’apprendista stregone stia b b per perdere il controllo, che la maionese sia pronta a impazzire. Per esempio, spiace un po’ aver visto Archie perdere la sua verginità e ritrovarselo qualche capoverso più in là immacolato come una novizia. Tutto questo rischia di compromettere l’emozione, favorire l’incredulità. Ma è un pericolo che Auster corre volentieri e senza indecisioni. È come se coltivasse, alla sua maniera, una vecchia ossessione di Zola e di tutti i suoi amici naturalisti: il romanzo come esperimento scientifico, come laboratorio a cielo aperto. Non c’è illuso più degno di commiserazione, pare ammonirci Auster, di chi ritiene di esercitare un pieno dominio sul proprio destino. La verità è che siamo tutti in libertà vigilata. Gli eventi determinano la nostra sorte più di quanto siamo disposti ad ammettere. I lutti, gli incidenti, gli incontri, i fiori non colti, i sentieri ignorati decidono per nostro conto. Quanti di noi sono sposati con una donna che non amano e non hanno ancora capito il perché? Quanti sono incastrati da anni in un lavoro che avevano accettato solo per sbarcare temporaneamente il lunario? E quanti devono la propria fortuna a un incontro avvenuto proprio quella sera che sarebbero più volentieri rimasti a letto? 4321 è un memorabile ritratto di artista da giovane scritto da un artista invecchiato meglio del previsto; una parabola morale sulle vite che avremmo potuto vivere se le cose fossero andate altrimenti. A svelarcelo è il Ferguson n. 4, alla fine del libro, quando confessa di essere lui l’autore del romanzo che stiamo terminando di leggere sulle esistenze plausibili dei suoi alter ego mai esistiti. Sua l’intuizione che il «mondo effettivo» è solo «una piccola parte di mondo», poiché la realtà consiste anche in «quello che sarebbe potuto succedere ma non è successo».
Alessandro Piperno, Corriere La Lettura, 12 novembre 2017