La soluzione possibile
“La sua melanconia non rappresenta né l’avarizia né l’insania mentale, ma un essere pensante in uno stato di perplessità. Non è fissa su un oggetto che non esiste, ma su un problema che non può essere risolto”: così Erwin Panofsky descrive l’incisione di Albrecht Dürer “Melencolia I”. Quando questo passo della “Vita e l’opera di Albrecht Dürer” mi è capitato sotto gli occhi un po’ per caso domenica sera, ho subito pensato alle parole pronunciate poche ore prima da Georges Bensoussan, ospite a Torino in un convegno su Israele e antisemitismo nel mondo islamico. A conclusione del proprio intervento, lo storico francese aveva sottolineato, riferendosi al conflitto israelo-arabopalestinese, che alcuni problemi, grandi o piccoli che siano, non hanno soluzione.
È forse banale affermarlo, ma credo che abbia colto nel segno. Perché è vero che capita di cullarsi nell’idea positivista, o forse soltanto esageratamente ottimista, che a ogni problema corrisponda almeno una soluzione, che ogni matassa di filo, per quanto intricata, possa essere dipanata. È radicata l’idea che sia possibile sciogliere ogni nodo, con pazienza e buona volontà. Eppure forse chi vuole riflettere seriamente su un conflitto, di qualsiasi tipo si tratti, dovrebbe prima di tutto porsi il quesito: “Esiste una soluzione possibile, ovvero accettabile, per le parti coinvolte?”. Nel caso del conflitto tra porzioni consistenti del mondo arabo-islamico e Israele, temo sia complicato rispondere positivamente, almeno da alcuni anni a questa parte. A questo proposito, è peraltro difficile sopravvalutare le responsabilità di una leadership arabopalestinese che a tutto sembra interessata tranne che alla ricerca del benessere e della tutela delle persone che sarebbe chiamata a rappresentare.
Le parole di Bensoussan, per converso, possono venire strumentalizzate e trasformarsi in una comoda scusa. Se infatti a un problema non corrisponde una soluzione accettabile, potrebbe pensare qualcuno, qualsiasi sforzo verso la soluzione stessa è inutile, frutto di un atteggiamento non realista fedele ai principi generali e poco attento alla materia grezza da cui il mondo prende forma. Chi argomenta in questo modo, però, non si accorge di stare abbracciando un ordine di principi differente ma ancora più astratto, rinunciando in partenza all’azione efficace, che è sempre confronto, compromesso, ricerca.
C’è infine una terza via. È quella che Panofsky individua nell’incisione di Dürer: malinconia, inazione, depressione, silenzio, attesa, paralisi. Anche questa strada di disillusione e indifferenza, evidentemente, non conduce in nessun luogo.
Resta ancora una possibilità, la più ovvia ma non sempre la più semplice: fare il possibile qui e ora. Senza cullarsi nell’illusione che non possano esistere problemi senza soluzione; senza rifiutare il confronto in nome di un presunto iperrealismo che è di fatto affermazione dei più astratti principi e spesso comoda scusa per giustificare la propria mancanza di buona volontà; senza rinunciare programmaticamente all’azione. Quello che resta è forse poco, ma è quello che possiamo fare.
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei
(16 novembre 2017)