Le vite di Sara
Di Sarai-Yiskà (mia principessa – colei che vede, per il suo potere profetico e perché tutti ne guardavano la bellezza, Bereshit 11:29), moglie di Avram, si parla poco nella Torà, e di lei emerge un ritratto più per reticenza che per azioni, più per drammi negativi apparentemente subiti che per protagonismo attivo: una vita errabonda, a lungo prostrata dalla sterilità, rapita da Parò prima e da Avimelèkh poi.
Non sappiamo neppure cosa le sia successo in entrambe queste ultime situazioni scabrose, ammesso che come interpreta Rashi Hashem abbia mandato a Paro una malattia della pelle tale da preservare la purezza di Sara (Bereshit 12:17); se anche Avimèlekh “non le si era avvicinato” (Bereshit 20:4), possiamo immaginare quale violenza psicologica possa celarsi dietro ai due rapimenti, tanto che secondo il midrash i malevoli, che sempre ci sono, fino a quando non videro con i loro occhi Yitzhak provarono a sostenere che fosse figlio di Avimelèkh e non di Avraham, non avendo avuto Sara nove mesi completi di gravidanza, o che addirittura lo avesse partorito Hagar, fino a quando non videro l’abbondanza del latte materno di Sara (Bereshit Rabbà 53, Tanhumà b, Pesikta de-Rab Kahana Mandelbaum).
Emergono però anche, spesso ancora indirettamente. diversi casi in cui la nostra prima matriarca è esemplare: quando Avràm (prima che Hashem gli cambi il nome) viene a sapere del rapimento di Lot, prende i suoi oltre trecento discepoli “nati in casa sua” (Bereshit 14:14), ovvero i figli dei discepoli convertiti da lui e Sarai (il marito educa gli uomini e la moglie istruisce le donne); Sarai è generosa, pur di garantire una discendenza ad Avràm acconsente alla sua unione con la serva Hagàr (Bereshit 16:1), ma allo stesso tempo non può accettarne la superbia quando questa, rimasta subito incinta, inorgoglisce e la offende (Bereshit 16:5).
Sarai merita di non essere più solo la principessa di Avraham ma di cambiare a sua volta nome e divenire Sarà, principessa (di tutti i popoli), ed il suo nuovo ruolo sarà segnato dal miracolo della fine della sterilità (Bereshit 17:15,16). E’ Sara in persona a preparare il pane per i tre ospiti, poi rivelatisi angeli, che giungono alla tenda di Avraham (Beresahit 18:6); della sua risata e delle diverse interpretazioni che ne sono state fornite, dall’incredulità alla gioia ed insieme paura di non poter davvero generare figli, abbiamo già parlato (Bereshit 18:12-15).
E dopo, di fatto, non aver descritto molto delle “vite di Sara”, come si intitola l’ultima parashà che abbiamo letto, in realtà si parla della sua morte, cosa che sembra contraddittoria iniziando a raccontare che “le vite di Sara furono di cento anni, vent’anni e sette anni” (Bereshit 23:1), e perché poi questa ripetizione? Sempre Rashi dice che si si parla di vite al plurale, reiterando il termine shanà/shanim (anni) perché la sua vita è suddivisibile in periodi così distiniti tra loro da dare inizio quasi ad una nuova esistenza: a cent’anni pura dal peccato come a venti, a venti di una fresca bellezza come a sette; o viceversa a venti saggia come una donna di cento e a cento con tutta l’energia di una ventenne (Midrash Rabbà 58:1).
Non sappiamo neanche come muore Sara, forse per il dolore per la scomparsa di Yitzhak, alla notizia della sua morte indica Rashi, e suggerisce ancora il midrash: il Satàn in persona avrebbe insinuato in Sara il dubbio che il figlio fosse stato portato via per essere sacrificato e non, come pensava lei, per studiare con il padre le leggi sui sacrifici; tre giganti di Hevron le confermarono di vedere lontano su un monte un uomo con un coltello rivolto verso il figlio legato su un altare, e questo bastò a Sara per piangere sei volte e morire (Rabbà 58:5).
Ma allora ovunque si parla davvero delle vite di Sara, di quello che fu per Avraham, per il suo senso di ospitalità, per dargli la discendenza prescelta, per metterlo in guardia su Ishmael, perchè anche dalla sua morte dipende l’acquisto della Mearat HaMakhpelà e quindi della terra per il popolo ebraico.
E forse ci furono altre vite di Sara che non conosciamo perché non ci sono state tramandate: la vita della bambina cresciuta in una casa idolatra, la vita della ragazza che lascia, con il marito, la sua terra per andare verso l’ignoto, la vita di chi accetta il dolore della sterilità ma continua a servire il Signore.
E poi la vita di chi offre il dono più grande, accettare che un’altra prenda il suo posto per generare un figlio al marito (chissà con quale dolore, pur di garantire una discendenza), e la sofferenza della ribellione di Hagar e del constatare, al posto del marito e per lui, che il figlio Ishmael sta crescendo straniero ed idolatra.
La vita di una donna che per la sua bellezza viene prepotentemente pretesa da altri uomini, e la difficoltà di difendersi. La vita racchiusa nel miracolo di poter avere un figlio, per di più in vecchiaia, per poi vederselo portare via e crederlo morto.
E nonostante tutto continuare a credere e vivere, fino a quando con la sua morte cessano la nube di gloria sulla tenda, la benedizione dell’impasto del pane e la candela accesa da uno Shabbat al successivo.
Sara Valentina Di Palma
(16 novembre 2017)