MACHSHEVET ISRAEL Sionismo fra tradizione e rinascimento
In occasione del V congresso sionista a Basilea (1901) Buber sottolineava come la “forza spirituale” del popolo ebraico “si espresse nell’esilio solo in un’attività […] indescrivibilmente unilaterale, che ci rese ciechi a ogni bellezza della natura e della vita. Ciò da cui ogni popolo seguita a trarre la sua lieta, sempre rinnovata energia – la contemplazione di un bel paesaggio e di belle creature – ci era stato tolto” (Mondadori 2013, p. 12). Il sionismo aveva dunque tra gli altri compiti quello di ripristinare le condizioni in base alle quali il popolo ebraico potesse portare il suo contributo – in quanto collettività – alle più diverse forme artistiche: poesia, letteratura e musica non meno di pittura e scultura. Su questa falsariga, nell’articolo “Rinascimento ebraico” (1901), da cui il suddetto volume trae il titolo, Buber auspicava che la fine dell’esilio, “congegno di tortura”, comportasse il venir meno tanto dell’“asservimento esteriore da parte dei popoli ospiti” quanto della “tirannia interiore della legge” ambedue responsabili di aver sviato “il sentimento della vita dalla sua naturale espressione” (p. 36). In altro contesto Levinas scrive che “le judaisme est frère du message socratique” poiché, come si esprime Socrate nel Fedro, “preferisce alla campagna e agli alberi la città ove si rincontrano gli uomini”. Tale passaggio del Fedro, che rimanda al distacco rispetto ai filosofi della physis, è funzionale in Levinas a polemizzare contro quella filosofia – Heidegger – per la quale “ritrovare il mondo, significa ritrovare un’infanzia rannicchiata misteriosamente nel Luogo, aprirsi alla luce dei grandi paesaggi, alla fascinazione della natura […]” (Heidegger, Gagarine et Nous, 1961, poi in Difficile Liberté, Albin Michel, pp. 347-350). La ‘natura’ e il ‘paesaggio’ giocano un ruolo tutt’altro che aneddotico. Difatti in un altro articolo Levinas scrive che “l’uomo ebreo scopre l’uomo prima di scoprire i paesaggi e le città. […] Comprende il mondo a partire d’autrui piuttosto che [comprendere] l’essere in funzione della terra” (Une religion d’adultes, 1957, DL, p. 44). Certo, proprio di quel rapporto a ‘autrui’ Levinas è in parte debitore al Buber di Ich und Du. Ciò detto è possibile, nell’esperienza della lettura, cogliere dei motivi contrastanti che possono prescindere dagli autori stessi. In Buber, qui riportato in interventi precedenti Ich und Du, si è rimandati a Nietzsche e alla Lebensphilosophie, da una parte, e all’antica opposizione hassidica all’establishment rabbinico dall’altra; in Levinas, invece, si sente la eco di una certa simpatia verso i mitnagdim e l’eredità della fenomenologia, la ricerca del tipo di esperienza inaugurata dalla Tradizione. La domanda è allora attorno all’origine: se quella intesa sulla falsariga di Nietzsche come condizione di libertà dei sensi antecedente e antitetica al messaggio socratico o, appunto, quella ‘socratica’, ‘urbana’. Al di là del pensiero complessivo dei due autori si ha l’occasione di distinguere tra l’entusiasmo del contatto, del radicamento e della presa diretta, di contro a una distanza, a un rapporto costantemente mediato attraverso l’intersoggettività e lo studio, con il Trascendente, la terra, l’‘altro’. Aspetti che, se non caricaturati, convivono nella vita di ciascuno, e che nell’esperienza di Israele si presentano forse come equilibrio tra Hesed e Sekhel.
Cosimo Nicolini Coen