Società – Incontri e riscontri

libroOgni evento ha le sue cause e i suoi effetti: è contemporaneamente conclusione di un passato e creazione di un futuro. “Potrebbero due camminare insieme se non si fossero prima incontrati?” si domanda il Profeta Amos (3,3). L’incontro apparentemente fortuito fra due persone rientra nei Piani Alti del nostro mondo. Tutto sta venirne a conoscere il significato. La radice del verbo “sapere” (y.d.’.) e del verbo “darsi appuntamento” (y.’.d.) in ebraico sono una l’anagramma dell’altra. Voglio condividere due incontri casuali del recente passato che hanno lasciato il segno. Il primo si è verificato a Torino alcuni mesi fa. Una mattina mi trovavo nei pressi della Comunità quando a una certa distanza, sul marciapiede davanti a me, notai un uomo piuttosto distinto che parlava al cellulare in modo concitato. Avvicinandomi mi capitò di origliare mio malgrado la conversazione e di capirne gli estremi. “Ospedale M.? Sono il chirurgo dottor X. Avvertite per favore il primario dottor Y che questa mattina non potrò presentarmi in sala operatoria. Poco fa sono stato derubato dell’automobile. Avevo lasciato dentro anche il borsello e ora non ho più né documenti, né soldi!”. Conosco il primario di chirurgia di quell’ospedale e i dati corrispondevano: compresi che il malcapitato stava dicendo la verità. Come si dice in ebraico: nikkarin divrè emet, “affermazioni veritiere si riconoscono”. Istintivamente ho messo mano al portafogli e ne ho estratto tutto quello che portavo con me: una banconota da venti euro. Mi avvicinai al medico e gliela porsi. Si schermì. A quel punto insistetti: “Lei è un chirurgo – argomentai – Io ho l’obbligo di darle questi soldi e lei ha il dovere di accettarli. Non ho la minima idea di chi sia il paziente che questa mattina la attende in ospedale per essere operato da lei, né di quali siano le sue condizioni di salute. So soltanto che se è in pericolo di vita e Lei non interviene, entrambi porteremo sulla nostra coscienza la responsabilità dell’omissione di soccorso. Non voglio essere colpevole della morte di chicchessia”. A quel punto l’uomo accettò e mi disse: “Chi devo ringraziare?” “La Comunità ebraica”, risposi prontamente. Allontanandomi riflettei a quel punto sul ladro. Il disgraziato autore del reato avrà pensato che sottrarre un’automobile non è un atto poi così grave. Per una bravata del genere non muore nessuno. In realtà nessuno può prevedere fino in fondo le conseguenze dei propri atti, specie se già nefasti in partenza. I nostri Maestri dicono ‘averah goreret ‘averah, “una trasgressione ne trascina dietro di sé un’altra”. Chi pensa di limitarsi a rubare potrebbe provocare un omicidio senza saperlo. Ed ora passo al secondo episodio. Anche a me capita, come a molti, di fare incontri interessanti nella metropolitana. Qualche tempo fa a Milano, fra le stazioni di Cairoli e Cordusio, mi sentii apostrofare: “Signor Rabbino, Shalom”. Alzai gli occhi e rividi per la seconda volta lo stesso suonatore di armonica a bocca con cui avevo avuto una dotta discussione teologica alcune settimane prima, sempre su un treno della “rossa”. Anche allora mi aveva notato per primo e mi aveva chiesto se in ebraico la parola Amen si scrive con la Taw. Inizialmente l’avevo guardato stupito, ma poi capii cosa intendeva. Gli spiegai che Amen non contiene la Taw, ma la parola affine Emet (“verità”) sì. Soggiunsi che la parola “verità” si scrive con la prima, la mediana e l’ultima lettera dell’alfabeto, perché la verità è tale in quanto sa abbracciare tutto. Mi benedisse. Gli lasciai un euro fiammante di mancia e si allontanò soddisfatto. Al nuovo incontro gli domandai io dove avesse studiato teologia. Mi rispose che in Romania, il suo paese d’origine, questi studi sono obbligatori. Questa volta mi benedisse citando Bereshit 12,2: “E benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno”. Gli feci notare che la seconda parte del versetto inverte i termini: “e coloro che ti malediranno Io maledirò”. Gli spiegai che D. benedice sempre prima di chiunque altro, ma non maledice mai i malvagi prima che questi non abbiano maledetto a loro volta. “Che D. benedica Israele”, mi disse, accompagnando le parole con un vistoso inchino. Purtroppo questa volta non feci in tempo a estrarre il portafogli. Fra una parola di Torah e l’altra il treno era ormai giunto a Duomo, dove dovevo scendere. Mi è francamente rincresciuto. “Il filo tre volte ritorto non si spezza facilmente” (Qo. 4,12). Che cosa gli dirò qualora ci fosse un terzo incontro? Non mi limiterei a porgergli il denaro che si aspetta di ricevere. La saggezza di quell’uomo merita molto di più. Tornerei a ringraziarlo delle sue benedizioni, forse facendogli notare che il valore numerico di tutte tre le lettere b.r.kh (rispettivamente 2, 200, 20) che in ebraico formano la radice del verbo “benedire” esprime dualità. I Maestri d’Israele insegnano infatti che “chi benedice, si benedice”. Due sono i destinatari di ogni benedizione. Chi benedice altri vedrà prima o poi la benedizione avere affetti positivi anche su lui stesso. La vita può riservare difficoltà, ma la dignità dell’uomo si vede dal modo con cui sa affrontarle. Due personaggi, due modi diametralmente opposti di misurarsi con la propria povertà: chi si concede al crimine con conseguenze potenzialmente immani e chi, con una sola parola, si acquista un mondo intero.

Nell’immagine, un libro miniato di preghiere e benedizioni del XVIII secolo

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, novembre 2017