La marcia e il marcio
I circa cinquantamila manifestanti che hanno partecipato al «corteo dell’indipendenza», l’iniziativa tenutasi a Varsavia l’11 novembre scorso, ripetendo lo slogan «noi vogliamo Dio», sono un buon spaccato di quella «Europa delle nazioni» il cui fondamento non è una presunta identità nazionale bensì quella razzista, in sé assai meno ipotetica ed incerta della prima. Il fondamento delle loro pretese è infatti l’identificazione e la definizione della propria «etnia» alla stregua di una sorta di essenza immodificabile e, in immediato riflesso, la sovrapposizione di questa con una visione claustrofobica e al medesimo tempo feudale del territorio, nel quale essa dovrebbe esercitare una sorta di signoria assoluta. È risaputo, infatti, che alla sfilata hanno partecipato un significativo numero di esponenti e militanti della destra radicale europea. Quest’ultima non è tutta riassumibile e rinviabile all’interno dei rimandi all’esperienza storica dei fascismi continentali. Tuttavia, continua ad alimentarsi di simboli, suggestioni e finanche sollecitazioni politiche che rimandano al periodo compreso tra gli anni Venti e Quaranta del secolo trascorso, quando maggiore fu l’impatto di regimi e movimenti di quel genere. Significativo è il fatto che il raduno si sia tenuto in Polonia, uno dei paesi europei che stanno rivelando maggiori difficoltà nel fare i conti con un passato, né troppo lontano né troppo vicino, che adesso ritorna senza troppe ritrosie e pudori. Più in generale, la tenuta democratica è a rischio un po’ in tutto l’arco del «gruppo di Visegrád» (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), laddove le tentazioni autoritarie, se non apertamente liberticide, si stanno manifestando soprattutto tra i partiti di governo o comunque in quelle forze politiche che si candidano ad un ruolo di maggioranza. Dopo di che, la raccolta di soggetti convenuti alla manifestazione ipernazionalista era troppo eterogenea per leggere in essa un rischio immediato per le democrazie europee in quanto tali. Non esiste tra di loro, infatti, una piattaforma politica unitaria. E volervi vedere le falangi di una nuova «internazionale nera» è, francamente, ingenuo prima ancora che erroneo. Molti di questi gruppi e gruppuscoli, nel momento in cui fossero chiamati a svolgere un ruolo di governo sarebbero inesorabilmente obbligati ad assumere atteggiamenti e a fare proprie condotte protezioniste, in totale disaccordo con l’impostazione liberista che è invece il tratto dominante in una parte delle politiche europee. Ma qualsiasi protezionismo rischierebbe, oggi più che mai, di isolare drammaticamente il paese in cui dovesse essere attuato senza adeguati contrappesi. Ne deriverebbe ben presto un tributo economico ancora più pesante di quello che già adesso una parte delle società nazionali europee pagano per i mutamenti in corso. Detto questo, ciò che emerge è semmai la crescente capacità che forze estremiste, tra di loro variamente assortite ma accomunate da un identico stile di comunicazione, stanno rivelando nello sforzo d’intercettare il malumore diffuso nelle società nazionali del nostro Continente. Mentre le destre e le sinistre istituzionali e liberali ritengono, per la più parte dei casi, che le dinamiche sociali non siano più affare proprio, nel quale intervenire per orientarne l’evoluzione, le componenti radicali dei sistemi politici occupano lo spazio di rappresentanza di un disagio diffuso, tale anche perché lasciato completamente a se stesso. E lo fanno spostando il fuoco dell’attenzione collettiva su alcuni obiettivi facilmente praticabili: i processi migratori intesi come una minaccia d’invasione e la causa di uno sradicamento collettivo già in corso; la polemica incessante contro le élite finanziarie, accusate di costituire la regia dei processi di impoverimento collettivo; la denuncia dell’Unione europea come di un progetto che snaturerebbe alla radice le «identità di stirpe»; l’ossessione omofobica e la denuncia delle «teorie del gender» come grimaldello culturale utilizzato per «pervertire» i «naturali rapporti tra i sessi», invadendo e colonizzando la sfera biologica; la visione della storia come di un complotto, ordito da gruppi d’interesse, molto spesso caratterizzati da una comune appartenenza etnica, ai danni delle autentiche e veraci «comunità di popolo». Quanto vi sia di antisemitico in questa concezione delle relazioni sociali non è neanche il caso di analizzarlo e ribadirlo. Poiché l’antisemitismo costituisce il filo nero che lega questo insieme di atteggiamenti mentali e cognitivi, tramutandoli in pratiche d’azione politica. Ed allora, se immaginare l’Europa immersa in un fascismo di ritorno non rende giustizia della complessità e della stratificazione dei processi in corso, va anche detto che gli elementi che a suo tempo fornirono un passe-partout a movimenti che avrebbero travolto come un’onda nera e bruna l’intero Continente, sono a tutt’oggi di nuovo presenti sullo scenario collettivo. Non li si contrasta esclusivamente con il rimando ai valori democratici o con il monito pedagogico. Più propriamente, quindi, è bene partire da un dato storico, ossia la conclusione del lungo periodo di pace fredda ma stabile, che abbiamo conosciuto dopo il 1945, quando alla (quasi) mancanza di guerre nell’Europa si accompagnò una relativa stabilità interna delle sue società. Così non è più, essendo oramai da tempo subentrata un’epoca di mutamenti e rivolgimenti, destinata a ripetersi negli anni a venire. L’autentico problema, come già avvenne quasi cent’anni fa, è allora la drammatica mancanza della politica come effettiva arena decisionale (e di indirizzo) delle trasformazioni in atto. Oggi la vera crisi sta nella refrattarietà e nel defezionismo di élite poco o nulla propense a svolgere un ruolo di direzione di società che, qualora continuino ad essere abbandonate a se stesse, non potranno che esacerbare il risentimento da abbandono e da impotenza, lasciandosi attrarre dall’offerta dei mercanti e degli speculatori dell’angoscia.
Claudio Vercelli