Mafai, il disegno e l’identità

“Ho perduto parecchio tempo a disegnare, ma in fondo disegnare non è mai tempo perduto. È piuttosto una chiarificazione di ciò che un artista pensa di realizzare nella pittura e nella scultura”. Scritte nel 1968, queste parole di Antonietta Raphaël Mafai testimoniano il ruolo per lei fondamentale del disegno, funzionale nel fissare un’immagine, un’idea, una sensazione sulla quale lavorare senza sosta.
Efficacemente lo spiega la mostra Antonietta Raphaël Mafai – Carte al Museo Carlo Bilotti, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Giorgia Calò – che presenta al pubblico una selezione di circa 50 carte dell’artista, la maggior parte delle quali inedite, che ripercorrono la sua lunga attività, dagli anni Venti fino al 1975, anno della sua scomparsa.
Numerose le suggestioni e i risvolti ebraici in questo inedito percorso espositivo, presentato in anteprima alla stampa (l’inaugurazione, questa sera alle 18.30).
Osserva al riguardo la curatrice, che è anche assessore alla Cultura della Comunità ebraica romana: “Guardando la vasta produzione di Antonietta Raphaël Mafai mi torna in mente un’affermazione dell’artista israeliano Ofer Lellouche che, riferendosi al suo amico Menashe Kadishman, disse: ‘Scolpisce come un pittore e dipinge come uno scultore’. Antonietta Raphaël Mafai usa il segno e la materia come fuga lirica quando scolpisce; la sua pittura tradisce invece un’anima di sognatrice, uno sguardo visionario costituito da uno spazio immaginario che la cornice delimita”.
Non si può capire fino in fondo la sua ricerca scultore, sottolinea Calò, senza tenere conto dei disegni preparatori. A volte decine che spesso esulano dalla semplice prova tecnica, “per diventare opere a sé, indipendenti dal passaggio successivo che li trasformerà in oggetti plastici”. Vice versa i suoi dipinti non esisterebbero senza la conoscenza dei vuoti e dei pieni che, spiega, “solo un’abile scultrice possiede”. Vuoti che l’artista tenta di colmare con mani forti, a volte in maniera violenta: sono i vuoti dell’anima, i luoghi lasciati per sempre e a cui non farà più ritorno. Ed è così “che quegli spazi vengono colmati dai ricordi che si trasformano in immagini, a volte appena abbozzati, come se provenissero da un tempo remoto o da un sogno, di cui è difficile ritracciarne e fissarne tutti i dettagli”. Ed è qui, riflette Calò, che l’artista rivela le sue origini ebraiche: l’infanzia nello shtelt di Kovno; la diaspora che fin dalla giovinezza la trascina in vari luoghi d’Europa come Londra, Parigi e Roma, nei quali più intenso si percepisce il respiro dell’innovazione artistica; ancora la fuga, questa volta dalle leggi razziali fasciste che la vede rifugiarsi a Genova.
IMG-20171122-WA0005Antoinette Raphaël, ultima figlia del rabbino Simon e di Katia Horowitz, nasce a Kovno il 29 luglio 1895. L’artista trascorre l’infanzia in Lituania in un’epoca in cui vengono promulgate leggi razziali a danno delle minoranze, cui seguono terribili pogrom. Nel 1903 muore il padre e due anni più tardi, con lo scoppio della rivoluzione, si trasferisce con la madre e i fratelli a Londra. In un contesto cosmopolita conosce Jacob Epstein che considererà sempre il suo maestro. Si dedica al canto, alla musica e al teatro. Nel 1915 si diploma in pianoforte alla Royal Academy of Music. È durante questi anni che comincia a disegnare e ad appassionarsi di scultura egizia. Nel 1924, in seguito alla morte della madre lascia Londra per Parigi e dopo poco è a Roma dove comincia a seguire i corsi di disegno alla Scuola libera del nudo. Qui incontra Mario Mafai. Nel febbraio 1926 nasce la sua prima figlia Miriam. L’anno dopo con Mafai, che sposerà nel 1935, va ad abitare in un appartamento in via Cavour che, anche grazie alla frequentazione di Scipione e Mazzacurati, diventerà teatro di quella che Longhi definirà “Scuola di via Cavour”. Nel 1929 esordisce alla I Sindacale del Lazio. Nello stesso anno è presente con 18 dipinti in una collettiva di 8 artiste alla camera degli Artisti. La critica rivela il “sapore prettamente russo” della sua pittura, tendente all’arabesco di gusto arcaico e popolaresco, oltre che il respiro internazionale e la portata innovatrice. Nel 1930 torna con Mafai a Parigi dove comincia a dedicarsi alla scultura e poi, da sola, si sposta a Londra per riallacciare i contatti con le vecchie conoscenze. Torna a Parigi e infine in Italia nel 1933. Nel 1938, la promulgazione delle leggi razziali la costringe a fuggire da Roma. Si nasconde prima nei pressi di Forte dei Marmi e poi a Genova. L’anno dopo è nella vecchia Villa Fioroni a Quarto dei Mille dove alloggerà fino al 1943. Di nuovo a Roma, ottiene uno spazio all’Accademia di Belle Arti ma la sua inquietudine la porta di nuovo a Genova. Ritorna a Roma definitivamente nel 1953. Tra il 1948 e il 1954 partecipa a varie edizioni della Biennale di Venezia e alle Quadriennali romane. Nel 1956 è in Cina con una delegazione italiana composta da Fabbri, Sassu, Tettamanti, Turcato e Zancarano. Al ritorno espone alla galleria La Strozzina di Firenze e in seguito in varie collettive in Europa, Asia e America. Alla metà degli anni Cinquanta giunge finalmente il riconoscimento dell’apporto dato all’esperienza della Scuola Romana. All’VIII Quadriennale del 1959-60, nella mostra “La Scuola Romana dal 1930 al 1945” vengono esposte diverse sue opere che la confermano tra i protagonisti dell’arte italiana fra le due guerre. Nella seconda metà degli anni Sessanta si dedica sempre più intensamente alla scultura, realizzando fra l’altro la fusione in bronzo delle sue opere più impegnative. Scompare il 5 settembre 1975.

(Nelle immagini Giulia Mafai e Giorgia Calò; l’interno della mostra)

(22 novembre 2017)