Bar Mitzvah
Tornare a casa sa di quel cassetto in soffitta chiuso da tanto, che odora di naftalina con dentro nostalgia del passato ed al contempo perdita del tempo. “Nel mio cuore amico scende il ricordo”, attraverso le stanze e per le scale, una vertigine a pensare quante persone qui ho incontrato, anni uno sull’altro snocciolati e già si parla del prossimo Bat Mitzvà (da quanto ne mancano, qui), ed è più comodo pensare ai figli altrui, decenni, a quella presentazione di bambina al Tempio di Purim quando indossavi un premaman rosso, volti andati di chi ha cambiato strada, volti invecchiati il tuo compreso, di chi è ancora qui.
Il muro fiorisce un po’ di umidità, macchie che non avevi notato prima, ma il resto è tutto quasi uguale, i canti ed i profumi di festa, il sorriso di chi c’è, passi veloci di bambini nuovi ad inciampare nei tappeti.
Tredici anni e si diventa adulti, ma meglio pensare a quanto ricorda il Talmud sull’importante incarico al tredicenne Bezalel per il Bet haMikdash (Sanhedrin 69b), piuttosto che alla vendetta dei fratelli della stuprata Dina, Shimon e Levi, quest’ultimo tredicenne definito già ish, uomo (Bereshit 34:25). O come narra il Midrash, al nostro primo patriarca che ha potuto essere tale per aver rifiutato, a tredici anni, gli idoli paterni (Pirkei de Rabbi Eliezer 16).
Pagine vecchie si riaprono, fascicoli e carte da lontano, anche esse oggi qui per te, a testimoniare la crudezza di un dolore mai sopito. Continuo a chiedermi che cosa ci direbbe Dina, che nessuno di lei racconta, e se avrebbe prima o poi trovato le risorse per raccontare, forse anche per ricordarci che la vendetta dei fratelli non ha cancellato il male subito, ma che non voleva, non poteva vivere per sempre nello status cristallizzato di vittima. Sopravvissuta, questo sì.
Sara Valentina Di Palma