Setirot – Stranieri residenti
Uno dei grandi pregi di Donatella Di Cesare è quello di coniugare – cosa sempre più rara – la filosofia “alta”, vera, con il senso dell’attuale, vorrei dire dell’immanente. Anche nell’ultimo lavoro, Stranieri residenti (Bollati Boringhieri) la docente di Teoretica alla Sapienza e di Ermeneutica filosofica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, affronta e sviscera le infinite poliedriche problematiche di qualcosa che non solo è parte viva della nostra quotidianità, ma che è senz’altro nodo vitale del domani collettivo. Non a caso, fin dalle prime righe, avverte che a chi «lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna, la migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire». Così il migrante ricorda allo Stato il suo futuro storico, ne scredita la purezza mitica. «Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato».
Scrive di migrazione e modernità, Di Cesare. Affronta la questione delicatissima “migranti contro poveri?”, stabilisce una sorta di inquadratura/necessità di uno jus migrandi, passando da Kant e poi tornando alla grammatica dell’odio, e poi Hegel, e la condanna alla invisibilità, e avanti con pagine gradevoli da leggere affrontando mille temi che sempre intorno a poche frasi e parole – quasi talmudicamente – ruotano. Ci ricorda i muri di ieri e di oggi, l’esilio e insieme i limiti del cosmopolitismo. Ci dice che nell’epoca postnazista è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi abitare, “ognuno a casa propria!”: «La xenofobia populista trova qui il suo punto di forza, il criptorazzismo il suo trampolino». Ci riporta ad Atene, a Roma, a Gerusalemme. Già Yerushalaim dove l’estraneità regna(va) sovrana: «dove cardine della comunità è il gher, lo straniero residente. Letteralmente gher significa “colui che abita”. Ciò contravviene alla logica di saldi steccati che assegnano l’abitare all’autoctono, al cittadino. Il cortocircuito contenuto nella semantica di gher, che collega lo straniero all’abitare, modifica entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi, fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il significato di “abitare” e di “migrare” nella attuale costellazione dell’esilio planetario…». Insomma, «questo rapporto non identitario con la terra dischiude, nella assunzione dell’estraneità, un coabitare che non si dà nel solco del radicamento, bensì nell’apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un’ospitalità che prelude già a un modo di essere al mondo e a un altro ordine mondiale».
Stefano Jesurum, giornalista