Siracusa – Il mikveh di Ortigia, traccia di un passato ebraico
Da piazza Archimede scendi lungo via della Maestranza, la seconda a destra è via della Giudecca. A ora di pranzo le stradine di Ortigia sono deserte, piove, il quartiere sembra addormentato. Ascolto i miei passi lungo la strada, mentre immagino quello che deve essere stato questo posto prima della cacciata ordinata da Isabella e Ferdinando II d’Aragona, re di Spagna, nel 1492.
Si ipotizza che all’epoca a Siracusa vivessero circa 5000 ebrei e che nel quartiere ebraico vi fossero botteghe, un ospedale, il mercato, il macello, 12 sinagoghe e 3 Mikweh, il più importante dei quali, scoperto solo 25 anni fa dalla marchesa Amalia Danieli Di Bagni durante i lavori di ristrutturazione dell’Hotel all’interno del quale è situato.
Gli ebrei siracusani erano completamente autosufficienti, dediti al commercio. Nel quartiere ebraico c’era anche il forno. Mi lascio andare lungo i vicoli e le case di pietra bianca, quasi a perdermi per le stradine dove mi sembra di sentire le voci allegre dei bambini che giocano nei cortili e sulle piazzette. Immagino le donne intente a stendere i panni o impegnate nella cucina e gli uomini a vendere al mercato. Immagino scene di vita spazzata via da un editto, che costrinse tutta la popolazione a lasciare le case o a convertirsi lasciando quel quartiere nel silenzio.
Senza rendermene conto sono arrivata a via Alagona.
È tardi, il Mikwe è chiuso, mi spiegano.
Devo essere riuscita a impietosire il signore alla reception perché poco dopo la signora Danieli mi accoglie ospitale, con un mazzo di chiavi in mano. Non mi sembra vero.
Nei 52 scalini che seguono per scendere i 18 metri che mi separano dal Mikwe, la signora mi racconta la storia di questo luogo unico. “Stavo facendo i lavori di ristrutturazione del palazzetto – spiega – e non ero riuscita ancora a dare risposta a un quesito: attaccato a un piccolissimo cortile c’era una costruzione senza alcun accesso”. Fu forse la curiosità irresistibile o un’intuizione, ma qualche giorno dopo la signora, assistita da un vecchio muratore, fece fare un buco nel muro della costruzione al di là del quale una piccola stanzetta piena di materiali e detriti lasciò scorgere una interminabile scala: quella che ora sto percorrendo io.
Ci vollero 156 camion per svuotare la stanzetta e riportare alla luce l’antico Mikwe ebraico, una sala quadrata con quattro grandi colonne quadrate, tutto intorno un sedile scolpito nella pietra. Fra le quattro colonne tre vasche poste a trifoglio, poi altre due piccole stanzette attigue, con altre due vasche di acqua limpida. Gioielli scavati nella pietra. Mi guardo intorno incredula ed emozionata osservando una riga nera che segna il livello in cui arrivava l’acqua nei giorni di “piena” e mi sembra un miracolo che dopo 500 anni tutto questo sia tornato a vivere testimone di un tempo magico e lontano, ma riaffiorato ora più forte che mai.
Lucilla Efrati