SPORT Il pallone rivoluzionario dell’ebreo errante

bela guttmanDavid Bolchover / THE GREATEST COMEBACK / Biteback Publishing

Alla storia minima del calcio è passato per una sentenza che forse non ha mai pronunciato: «Nei prossimi 100 anni il Benfica non sarà più campione d’Europa». Ma ha ragione David Bolchover, quasi al termine della sua appassionata biografia di Béla Guttmann, il primo allenatore davvero globale della storia: «Sarebbe sorprendente se si fosse limitato solo a 100 anni…». La maledizione, come è noto anche fuori Lisbona, finora ha ampiamente funzionato, estendendosi pure all’Europa League. Persino il grande Eusebio, prima della finale di Vienna del 1990 contro il Milan, ci ha provato: è andato al cimitero dove è sepolto Guttmann — ebreo ungherese che si assicurò il passaporto austriaco un mese prima che i carri armati invadessero Budapest nel 1956 — e ha sussurrato delle preghiere, implorando il suo vecchio allenatore capace di vincere con il Benfica due coppe dei Campioni consecutive nel 1961 e nel 1962, la seconda grazie allo stesso Eusebio. Ma non c’è stato e non c’è nulla da fare. Perché nell’epopea personale di Guttmann, che ha attraversato alcuni snodi chiave del Novecento, la cifra stilistica è stata sempre e solo una. Quella dell’esagerazione. Questo vale sul campo, da giocatore, dove fa fortuna negli anni Venti negli Stati Uniti, diventando anche una sorta di impresario del pallone. Vale in panchina, nelle famigerate trattative coi presidenti per strappare l’aumento o nella gestione dei calciatori. Quando il Milan lo esonerò a inizio ’55, Guttmann si presentò davanti ai giornalisti e disse testuale: «Sono stato licenziato, anche se non sono né un criminale né un omosessuale. Addio». Vale a maggior ragione sui tavoli da gioco di mezzo mondo, dal Brasile (dove al suo vice Feola diede gli strumenti tattici per plasmare il Brasile campione del mondo 1958) alla Grecia, dall’Uruguay agli Stati Uniti, passando per Trieste, l’Olanda, la Romania o l’Argentina in cui disperdeva buona parte dei suoi guadagni. Vale nell’incidente, nella fuga e nella condanna alla fine irrisoria per aver investito (guidando senza patente) e ucciso Giuliano Brene, un ragazzo in motorino, a Milano il 2 aprile 1955. Ma non vale nel «più grande ritorno», The Greatest Comeback che dà il titolo a questa biografia che rivela pagine inedite della vita di uno dei più grandi allenatori della storia, smentendo quello che si è sempre tramandato: che Guttmann cioè si fosse rifugiato in Svizzera negli anni della persecuzione nazista. Con un lavoro soprattutto sulle fonti ungheresi, scritte e orali, e attraverso quel che resta della famiglia del tecnico, Bolchover riscrive pagine intense e toccanti, sempre gelosamente tenute nel cassetto dal diretto interessato. Guttmann riesce a scampare alla deportazione ad Auschwitz (a differenza del padre e della sorella che lì troveranno la morte) grazie a un altro geniale collega, Egri Erbstein, tecnico del Grande Torino caduto a Superga il 4 maggio 1949. Poi la salvezza di Guttmann si rivela la moglie Mariann, moldava di religione cristiana, con un fratello parrucchiere: nel sottotetto del suo negozio — contro il volere della suocera che temeva ritorsioni naziste — Béla si è nascosto per mesi, evitando i rastrellamenti. E dire che da Budapest, dove la comunità ebraica aveva sofferto repressione e violenze a inizio degli anni Venti, Guttmann era già partito, trovando fortuna negli Stati Uniti: prima della crisi del ’29 le squadre di matrice ebraica godevano di un seguito popolare massiccio e diedero un impulso notevole quanto effimero alla lega americana. Con il crollo di Wall Street però l’ebreo errante, ornai calciatore in declino, comincia il suo percorso a ritroso verso l’Europa. Da allenatore, lui che a 16 anni si guadagnava da vivere come istruttore di dama, si distingue per alcune peculiarità: l’attenzione alla preparazione atletica che faceva quasi sempre partire fortissimo le sue squadre per poi calare miseramente nella seconda parte di stagione, è un sergente di ferro (famose le sue multe per i ritardi agli allenamenti) ma allo stesso tempo crea una forte empatia coi suoi giocatori, come testimonia un’altra delle sue sentenze passate alla storia: «Fate l’amore una volta sola!». Anche per queste sue caratteristiche, oltre che per avvicinare ulteriormente Guttmann ai lettori di oggi, Bolchover insiste sul paragone con José Mourinho. Forse il principale punto di convergenza tra i due è stata la capacità di vincere da outsider e anche di fare grande il calcio portoghese, dato che assieme con Benfica e Porto hanno vinto tre Coppe dei campioni. Certi discorsi motivazionali, pronunciati in un misto di italiano e portoghese negli spogliatoi, nell’intervallo della finale contro il Real di Di Stefano e Puskas, e raccontati a Bolchover dai giocatori del Benfica, ricordano quelli dello Special One: «Real stanco! Real stanco! Di Stefano morto! Vinciamo noi, siamo più forti!». Elementare ma carismatico. L’aura di Guttmann col tempo svapora però a causa di pregiudizi razziali (per questo lascia da c.t. dell’Austria nel 1964) e soprattutto per la sua incapacità di mediare nelle trattative economiche, anche a causa dei soldi persi al gioco: «Sono l’allenatore più caro del mondo — disse dopo aver chiesto il 65% di aumento al Benfica — ma se guardate ai miei risultati, in realtà sono conveniente». Non gli diedero retta e lui lanciò il suo anatema. Chissà cosa direbbe oggi, di fronte agli stipendi dei suoi colleghi in panchina.

Paolo Tomaselli, Corriere La Lettura, 26 novembre 2017