NARRATIVA Cacciatore di tracce
L’ultimo libro di Claudio Magris, “Non luogo a procedere”, esce in questi giorni in Francia, pubblicato da L’Arpenteur. Di seguito pubblichiamo un approfondimento pubblicato dal quotidiano Le Monde.
Ci sono degli scrittori che, come delle chiocciole, si portano le loro opere sulle spalle; producono dei libri “globali”, globalizzati se così si può dire, senza alcun rapporto con il luogo nel quale vengono scritti. Per altri scrittori avviene il contrario: le loro opere sono impregnate di terra e d’inchiostro. A loro la geografia suggerisce gli argomenti e li condiziona profondamente. È il caso di Claudio Magris, uno dei più grandi scrittori europei, rappresentante di spicco di questa “geo-poetica”.
Nato a Trieste nel 1939, germanista di formazione, Magris non è solamente un romanziere e saggista pluripremiato, ma anche un critico e giornalista di rilievo: il Corriere della Sera ha festeggiato quest’anno i 50 anni della loro collaborazione. Egli ha costruito un’opera unica, erudita e profondamente umanista. Un’opera segnata dalla ricerca della libertà, che ha le sue radici principalmente nel suolo dell’antico impero austro-ungarico. La Mitteleuropa.
Libro totale
Claudio Magris osserva questa terra di confini attraverso tutte le lenti possibili, a livello macro e microscopico. A volte, allarga la sua focale al massimo, esplorando per intero questo territorio, come quando seguiva il fiume Danubio, dalla Foresta Nera fino al Mar Nero (“Danubio”, 1988). Altre volte, zooma sulla sua città natale, questa città emblematica di tutte le identità mutevoli, contemporaneamente latina, germanica e slava: la Trieste degli scrittori Italo Svevo, Umberto Saba, Boris Pahor… Ingrandendo ancora di più l’immagine, non ci fa piombare in un quartiere o in un sobborgo, ma all’interno di un palazzo ben preciso. In questo caso, il numero 5 di via Giovanni Palatucci. Un edificio rossastro, massiccio e quadrato che era dapprima una fabbrica per decorticare il riso, poi, durante la seconda guerra mondiale, un campo di sterminio nazista (con forno crematorio), proprio quello a cui sopravvisse lo sloveno Boris Pahor, ma dove altre 5000 persone morirono: la Risiera di San Sabba. Di passaggio a Parigi, Claudio Magris dice di essere “sfinito da questo libro”. “Dopo sei anni di lavoro e di intense ricerche, dall’Italia alla Martinica, mi sento svuotato. Come un appartamento dopo un trasloco.” È invece l’immagine di qualcosa di pieno che viene in mente dopo aver chiuso questo grande romanzo, questo libro totale. Magris vi ha profuso tutte le sue energie, ancora di più che in altri. Ci ha messo tutta la sua conoscenza. Affinché l’illusione della finzione restituisse almeno una parte della verità della Risiera, è diventato a turno archeologo, cronista, agrimensore, narratore… La parola che sceglie è “inventore”. “I Greci già lo sapevano: gli scrittori raccontano molte bugie, o in altre parole, inventano, ma l’etimologia suggerisce che la parola “inventare” è strettamente legata a “trovare”: “inventio”, “invenire”, qualcosa di reale, di vero”.
In questo caso, trovare significava prima di tutto dimostrare. Rendere innegabile l’esistenza della Risiera. Perché ironicamente, questo libro potrà anche basarsi su un luogo, ma il suo titolo è “Non luogo a procedere”. E non è un caso: i triestini per molto tempo hanno fatto di tutto per dimenticare la Risiera. Per cancellarla dal paesaggio. Ben prima del fuoco e della calce, la loro arma suprema fu il silenzio. Claudio Magris racconta “le belle ville con vista sul mare”, le serate che si concedeva con “camerieri in giacca” e il tintinnare dei bicchieri in cristallo. “Non si parlava della guerra, in quelle sere. Non di quella appena finita. Un po’ di quelle in Africa o in Asia, che sono lontane e non c’entrano né con i tedeschi né con gli italiani né con gli slavi. C’entrano con i comunisti, che ci sono dappertutto…”
“La ricerca delle ragioni”
Scrivere significa trovare il vero, ma che cos’è il vero? Spesso è qualcosa che esiste già, ma è latente, e di cui lo scrittore è solamente portatore. In “Utopia e disincanto” (Garzanti, 1999) Magris aveva già notato che “Scrivere è sempre trascrivere; come l’amanuense medievale copiava un testo antico, ogni scrittore trascrive un testo nascosto e inafferrabile, il libro indicibile della vita, le parole incise nelle cose, nella nervatura di una foglia”. C’era bisogno in questo momento di poter leggere qualche “foglia” immaginaria dei diari ridotti in cenere di Diego de Henriquez. Grattare la calce per ritrovare le tracce dei graffiti sui muri, il segno dei nomi sulla pietra. C’è molta umiltà nel modo in cui Magris concepisce il suo ruolo. Un ricercatore di tracce. Colui che scopre gli strati e rivela ciò che riaffiora.
Ma si presenta in seguito una questione spinosa, che lui si pone in molti dei suoi libri: cosa se ne fanno i personaggi di questa verità? “Come diceva un gesuita spagnolo del XVII secolo: dire la verità è come fare un salasso al cuore”, osserva Claudio Magris. “È come un’operazione chirurgica che può salvare la vita o uccidere. Forse una delle costanti dei miei libri non è solamente la ricerca della verità, ma piuttosto la ricerca delle ragioni che ci spingono a non volerla vedere, dire o credere, a falsificarla, correggerla, ritoccarla. Questa ricerca esisteva già nel mio primo romanzo breve, “Illazioni su una sciabola” (Cariplo-Laterza, 1984), e poi continua in altri testi.”
In “Non luogo a procedere” si tratta secondo lui di mostrare “come le falsificazioni e le deformazioni della verità vivano nello spirito e nel cuore” dei triestini, e come i triestini riscrivano le storie, se le raccontino… e finiscano per crederci. In fondo, Magris non è il solo inventore in questo racconto. Anche i suoi personaggi sono degli “inventori”. Senza parlare del lettore… ognuno costruisce un racconto dove trova la “sua” verità. A questo punto, sottolinea Magris, non si parla più di verità oggettiva o storica, ma della verità intima e esistenziale dell’individuo. Ovvero una verità coperta dall’”oceano di contraddizioni, di sentimenti, di emozioni e di offuscamenti dell’esistenza”.
Ritorniamo a Trieste. Magris è convinto che il suo personaggio del “collezionista” pazzo non potesse che essere triestino. Perché è “un maniaco” che accumula armi all’infinito per crearsi un’impressione rassicurante di “stabilità”. Perché la sua collezione non finisce mai e niente lo soddisfa. Né continuare né fermarsi. Lo scrittore vede in questa nevrosi una caratteristica profondamente “mitteleuropea”. Trieste, come Praga, è una città nella quale non si finisce mai, spiega Magris. Con la quale si può mantenere solamente un “rapporto edipico”. Una città nei confronti della quale, scriveva Magris in “Alfabeti” (Garzanti, 2008), il solo atteggiamento possibile è “una continua oscillazione tra la folle voglia di fuggire e l’ardente desiderio di ritornare, tra due posizioni impossibili, darle sostegno o farne a meno.”
Florence Noiville, Le Monde, 8 novembre 2017
Traduzione di Sara Volpe, studentessa della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinante presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.