NARRATIVA Le ombre di Trieste
L’ultimo libro di Claudio Magris, “Non luogo a procedere”, esce in questi giorni in Francia, pubblicato da L’Arpenteur. Di seguito pubblichiamo un approfondimento pubblicato dal quotidiano Le Monde.
Claudio Magris ambienta “Non luogo a procedere” nella Risiera di San Sabba, campo di concentramento nazista in Italia. Ecco cosa pensa lo scrittore rumeno Norman Manea di questo splendido romanzo
Claudio Magris è uno degli scrittori più comsmopoliti e raffinati d’Europa. Non è un tipo che perde tempo pensando a Donald Trump. E il suo romanzo, Non luogo a procedere, non è di certo una previsione della presidenza americana. Eppure, fa pensare a quello. Perché Magris cerca la verità, quella stessa verità che sembra ormai introvabile nell’era della falsificazione e della “post-truth”.
Verità e identità: come vivere con il vero se stesso? È questo il grande filo conduttore delle opere di Magris da Lontano da dove?, l’opera su Joseph Roth (Torino, Einaudi, 1971), a Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997), passando per il famoso “travelogue” Danubio (Milano, Garzanti, 1986) e gli articoli giornalistici. Brulicante di personaggi, Non luogo a procedere si presenta come un’epopea con uno spazio narrativo incredibilmente ampio – dalla Germania e l’Italia a Praga, dalla Russia agli Stati Uniti, arrivando fino al Paraguay e alla Bolivia. La domanda principale: cosa ne è della verità quando viene invasa dalla menzogna, che si tratti di vecchie manipolazioni politiche o di contro-verità tutte nuove, nel momento in cui queste di abbattono improvvisamente, come in un Blitzkrieg, su tutti gli aspetti dell’esistenza? Cosa succede quando “la menzogna si diffonde al punto da diventare reale o almeno essere considerata tale dalla maggioranza”? Qual è il suo ruolo nella perpetuazione o nella ripresa delle antiche guerre e delle loro conseguenze? La storia comincia nelle periferie di Trieste, città natale dello scrittore, nell’antica Risiera di San Sabba, il primo impianto di decorticazione del riso, costruito nel XIX secolo. Tra il 1943 e il 1945, la Risiera – un edificio “rossastro e nerastro”, diventò un campo di morte nazista dove numerosi ebrei, antifascisti, partigiani italiani o iugoslavi e prigionieri politici – circa 5000 vittime in totale – furono massacrati e carbonizzati nel forno crematorio, l’unico in Italia, che vi si trovava allora. Delitti presto dimenticati negli anni del dopoguerra. Tranne da un uomo, uno storico di nome Diego de Henriquez, che passò la vita a raccogliere qualsiasi tipo di arma e materiale di guerra.
L’idea di Henriquez era di creare un museo che sarebbe diventato, “grazie all’esposizione di tanti strumenti di morte, uno strumento di pace”. Nel frattempo, il professor Henriquez si impegnò a ricopiare su dei quaderni le scritte lasciate dai prigionieri nelle celle e nelle latrine della risiera. Dei graffiti compromettenti, dato che contenevano i nomi di vittime torturate o assassinate, ma anche di traditori, spie, delatori e profittatori implicati in qualche modo nel funzionamento del campo. Stranamente, Henriquez e i suoi quaderni scomparvero in un incendio nel 1974. Poco dopo, le scritte furono cancellate dai muri della risiera. In seguito, fu emessa una sentenza di “non luogo a procedere”. Da qui il titolo del libro.
Riaprendo il dossier a più di settant’anni di distanza, Claudio Magris si ispira molto liberamente a Diego de Henriquez – “un triestino geniale e irriducibile, animato da una passione ostinata” – per creare il suo “Collezionista”, un personaggio solitario ed eccentrico al quale non dà un nome, ma che, similmente, ha ricopiato le scritte dei deportati e che, dopo aver trasformato la risiera in un “Museo della guerra per l’avvento della pace”, perirà nell’incendio di quest’ultimo. Nel romanzo, Magris immagina che una giovane donna prenda il suo posto.
Figlia di un aviatore afroamericano delle truppe di occupazione e di un’ebrea triestina risparmiata dalla Shoah, Luisa Kasika Brooks, nipote di deportati, è una giovane e affascinante curatrice d’arte dedita al suo compito. Incaricata di ricostruire e riallestire il museo, Brooks riesuma il passato per evitare, ci dice Magris, che “le sue atrocità siano cancellate da uno strato di calce come i muri della risiera”.
Una delle numerose trovate di Magris consiste nel farci procedere nel romanzo come se stessimo visitando quel “museo dell’odio”, sala dopo sala. Ogni capitolo si apre con un’arma di cui ci racconta la storia – a meno che non siano loro, le armi, a raccontare. Ci sono archi e frecce degli indiani del Gran Chaco in Sudamerica, una catapulta chamacoco che serviva a lanciare palle di terra seccate al sole, una spada della guarda del corpo dell’arciduca Massimiliano, imperatore del Messico, Obusier del 1914, carri armati e jeep del 1940, una mitragliatrice Saint-Etienne mod. 1907, un paio di scarpe di un partigiano sloveno, copie dei Protocolli dei Savi di Sion e del Mein Kampf, innumerevoli documenti d’archivio, lettere anonime, di denuncia o di vendetta, o ancora una macchina da scrivere Olivetti con un’avvertenza: “La penna uccide più della spada”.
In una delle sale, vediamo una medaglia postuma, attribuita a un certo commissario Collotti per aver torturato un antifascista con delle scariche elettriche nei genitali e in bocca. Accanto si trova un video realizzato per il decimo anniversario della morte del Collezionista. Chi era?, si chiede un personaggio. “Un grande studioso, un truffatore, un impostore, un maniaco?” Ovunque, prevale l’ambiguità. Come nella storia di Otto Schimek, soldato austriaco seppellito in Polonia. Sulla targa dorata che si trova sulla sua tomba, c’è scritto che Schimek è stato fucilato dalla Wehrmacht per essersi rifiutato di sparare a dei civili polacchi. Si scoprirà tuttavia che questo “eroe” – acclamato a suo tempo da Lech Walesa – era un soldato fragile, disertore dell’esercito tedesco, ma che gli austriaci e i polacchi avevano bisogno di un eroe nazionale…
La verità è nelle ombre – una parola che torna a più riprese sotto la penna di Magris. Quella dell’adolescenza timida del Collezionista. Quella lasciata dai fantasmi della sua iniziazione sessuale. Quella proiettata dalle fiamme dell’incendio… E mentre quest’uomo – che ogni notte dorme in un sarcofago del museo – sente il fumo invadergli la gola, mentre l’aria diventa sempre più irrespirabile, si accorge che il sangue secco che aveva sotto le unghie è scomparso. La storia, pensa, è “una brava manicure”.
In questo romanzo intenso e accattivante dove etica ed estetica sono messe l’una al servizio dell’altra, Magris non smette di ricordarci fino a che punto realtà e finzione sono intrecciate, ma anche fino a che punto la ”menzogna” della letteratura a volte è più vera di quanto suggerirebbe la realtà immediata. Le sue impressionanti conoscenze storiche e sociali, la sua lucidità impeccabile, il suo misto di sarcasmo e compassione nei confronti dei suoi personaggi: tutto contribuisce a fare di questo romanzo potente uno studio “completo” e importante dell’umanità, che ne mescola le contraddizioni e le complessità fin dall’alba dei tempi. Di guerra e di pace. Un grande scrittore ci regala un grande libro, per la nostra epoca.
Norman Manea, Le Monde, 8 novembre 2017
Traduzione di Federica Alabiso, studentessa della Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinante presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.