All’interno dell’Islam
Sull’attentato della scorsa settimana a Bir al-Abed nel Sinai settentrionale, il quale ha provocato oltre 300 morti e centinaia di feriti, non mi pare ci sia stato grande risalto sui media nazionali. Le spiegazioni potrebbero essere numerose, quella che ritengo più plausibile è che se gli attentati perpetrati in Occidente vengono risolti con l’ausilio delle classiche teorie dello “scontro di civiltà” e dell’”espansionismo islamico”, quelli che avvengono invece in Dar al-Islam, in paesi islamici, restano in gran parte incomprensibili e in contraddizione con le dicotomie ricorrenti. Abbiamo assistito allora all’abusato tentativo di spiegare l’evento con la circostanza che quella di Bir al-Abed fosse una moschea “sufi”, come se il sufismo fosse una corrente o una religione a sé discinta da un Islam maggioritario, al pari dello Sciismo o dell’Ibadismo, quando esso non si riferisce altro che a varie scuole di pensiero e a confraternite, o più correttamente un “mezzo”, un'”approccio mistico”, una “via” per interpretare l’Islam e il significato dei suoi testi. Un po’ come se si opponesse un ebraismo ufficiale alla kabbalah. Il termine “sufismo” sarebbe in origine persino inesistente nel mondo islamico, introdotto soprattutto dagli orientalisti britannici e poi nel dibattito contemporaneo per definire un altro Islam dal “volto umano” e “buono”. Un tentativo artificioso.
Il vero scontro non è tra correnti islamiche o tra religioni/culture ma una sorta di
fitna tra diverse concezioni del mondo e dell’Islam: quella propugnata dai “jihadisti” e dal salafismo propone una visione dell’Islam deculturalizzata, globalizzata e omologante, priva di ambiguità e letterale, la quale non può naturalmente convivere con pratiche e tradizioni locali che verranno di volta in volta etichettate come eterodosse, sospette e arretrate. Operare una distinzione parlando in questi termini di “sufismo” o anche di “marabutismo” finirà quindi per realizzare la volontà dei salafiti che scorgono in questi fenomeni una distorsione da un presunto “Islam puro”.
Per esempio più volte ho sentito persone domandarsi del perché l’Islam dei Balcani fosse più “tollerante” – ma in realtà molto sta mutando da anni anche in quei luoghi – o del perché i centroafricani, nonostante la loro fede musulmana, fossero meno coinvolti nel fondamentalismo rispetto ai beurs o ai levantini. Sarà capitato forse di vedere a tutti per le strade cittadine o sulle spiagge, qualche venditore ambulante senegalese con al collo l’immagine di un signore vestito con un lungo abito bianco e una sorta di sciarpa intorno al volto, il quale a me ricorda vagamente (non so come mai) il rabbino marocchino Baba Sali. Bene, egli è Amadou Bamba, il fondatore della confraternita “sufi” Muridiyah, non un leader politico, ma un asceta vissuto nel secolo scorso che insegnava le virtù del pacifismo, della condivisione, e del sacrificio attraverso il lavoro manuale, il grande Jihad significava per egli non la guerra con le armi ma la fede in Dio e la lotta contro i propri “istinti negativi”. Due terzi di quei senegalesi presenti in Italia e che vediamo quotidianamente appartiene a questa confraternita e si reca all’annuale pellegrinaggio nel mese di Ramadan a Touba, il resto appartiene a quella analoga Tijaniyya. Le confraternite sufi sono così diffuse non solo in Africa, ma in tutto il mondo islamico e ne sono sostanza integrante. Questo è dunque tutto ciò che il wahhabimo dei paesi del golfo, attraverso l’esportazione della sua ideologia politico-religiosa, l’istituzione di scuole più conformi al “pensiero univoco” e il sostegno a gruppi salafiti o cosiddetti “jihadisti”, sta cercando incessantemente di distruggere, ovvero gran parte dell’universo musulmano stesso.
Francesco Moises Bassano