Weizmann e la Dichiarazione

torino vercelliNel 1917 per il movimento sionista l’obiettivo fondamentale era di arrivare ad un suo pieno riconoscimento politico e diplomatico da parte dei maggiori attori presenti nello scenario internazionale, così come delle istanze che portava avanti, a partire dal radicamento del nuovo Yishuv, l’insediamento. Ciò tanto più dal momento che si era consolidata la presenza britannica nella regione mediorientale, con il parallelo declino prima e la scomparsa poi dell’Impero ottomano. Chi e meglio di molti altri si adoperò in tale senso, per tutta la durata della sua esistenza, fu Chaim Weizmann. Che di fatto fu il vero regista, per parte ebraica, della Dichiarazione Balfour, resa pubblica il 2 novembre del 1917, con la quale si manifestava la posizione inglese riguardo alle rivendicazioni sioniste, affermando che: «Il governo di Sua Maestà guarda con favore allo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico [«a national home for the Jewish people»], e si adopererà attivamente per facilitare il raggiungimento di questo scopo [«and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object»]». Nato a Motal nel 1874, parte dell’allora Impero russo, scienziato di talento, dopo avere studiato chimica in Germania e Svizzera ed avere quindi conseguito un dottorato, iniziò a insegnare all’Università di Manchester, divenendo infine nel 1910 cittadino britannico. Il suo impegno come responsabile dei laboratori dell’Ammiragliato britannico nel corso della Prima guerra mondiale, dove sviluppò gli studi sugli esplosivi, consolidò il capitale di credibilità che aveva maturato nei confronti delle autorità britanniche. Parallelamente a ciò, Weizmann era andato sviluppando un’intensa azione politica, divenendo ben presto l’esponente più in vista della componente liberale del movimento sionista. Come tale, ne rappresentava gli interessi anche nel Regno Unito, dinanzi ad una comunità ebraica locale invece perlopiù perplessa, se non ostile, all’ipotesi della costituzione di un’entità politica nazionale indipendente, vista infatti come un potenziale ostacolo ai percorsi di emancipazione e d’integrazione dei correligionari britannici. Con Arthur Balfour, già Primo ministro inglese tra il 1902 e il 1905, a lungo leader del partito conservatore, Weizmann venne quindi intessendo una robusta rete di relazioni, che si sarebbero rivelate particolarmente profittevoli nel corso del decennio successivo. Durante la campagna elettorale del 1906 i due ebbero infatti modo di incontrarsi per una prima volta. Weizmann viveva nel Regno Unito da soli due anni ma era già un affermato esponente del mondo della ricerca scientifica a livello europeo. Ciò gli dava una credibilità che ad altri dirigenti dell’ancora fragile movimento sionista mancava del tutto. Lo studioso rivestiva i panni sia dell’intellettuale che dell’organizzatore, lavorando in un settore, quello della chimica industriale, che era considerato strategico. Nell’agenda britannica l’ipotesi di una patria per gli ebrei non era peraltro nuova. Storicamente datava ad un secolo prima. Nel 1839 Anthony Ashley-Cooper Shaftesbury, politico e filantropo, tra i primi sostenitori del proto-sionismo di matrice cristiana, aveva apertamente caldeggiato il ritorno degli ebrei in Galilea e Giudea, sotto la tutela delle potenze europee. Lo stesso anno, l’allora ministro degli Esteri del Regno Unito, Henry John Temple di Palmerston, all’apogeo dell’Impero britannico, aveva dato disposizioni affinché gli interessi ebraici a Gerusalemme fossero sottoposti a particolare tutela. Il mondo protestante, ed in particolare le componenti evangeliche, erano dichiaratamente sensibili in tal senso. Nel 1841 il colonnello Charles Henry Churchill, console inglese a Beirut, dopo la riacquisizione ottomana della Palestina aveva sottoposto ai suoi connazionali ebrei, raccolti nel «Board of Deputies of British Jews», l’organismo di rappresentanza delle comunità insulari, il progetto per una sua colonizzazione, ricevendone peraltro un netto rifiuto. Così era avvenuto anche per altri esponenti della politica imperiale, come il colonnello George Gawler, che nel 1849 aveva a lungo viaggiato nella Palestina ottomana, con il filantropo ebreo Moses Montefiore, fondando due anni dopo un’associazione per il reinsediamento ebraico; oppure con uomini politici come Lawrence Oliphant e il generale Charles Warren. Nel 1844 peraltro era già stata costituita a Londra una «Società per la rinascita della nazione ebraica in Palestina», dalle fortune incerte. Lo scenario del primo Novecento, tuttavia, si presentava radicalmente diverso. Più che rispondere a suggestioni di ordine morale o intrecciate ad un qualche messianesimo religioso i protagonisti dovevano ora confrontarsi con i mutamenti che stavano investendo tutto il Mediterraneo orientale, a fronte della presenza di una organizzazione nazionale, il sionismo, che era nata ed era cresciuta nello stesso ambito ebraico. Il ministro per le Colonie Joseph Chamberlain nel 1903 aveva quindi proposto a Herzl di collocare l’insediamento sionista in Uganda. Non si trattava di un atto di benevolenza e, ancora meno, di un gesto filantropico. Semmai era parte di quella visione attivistica dell’impegno imperiale britannico di cui Chamberlain era uno dei più importanti esponenti. La spartizione dell’Africa, consumatasi nel corso della seconda metà dell’Ottocento, aveva lasciato molti conflitti aperti, sia tra le potenze europee che vi avevano preso parte che con le popolazioni locali. In tale logica, il consolidamento della propria sfera di egemonia era obiettivo integrante dell’azione politica di Londra. Chamberlain aveva quindi caldeggiato l’edificazione della colonia ebraica in un’area di tredicimila chilometri quadrati, in quello che in origine costituiva il protettorato dell’Uganda britannica, poi protettorato dell’Africa orientale. Il territorio preso in considerazione, che è oggi parte del Kenya, era lo Uasin Gishu (conosciuto anche come Gwas Ngishu). Circondato da un’ampia foresta, caratterizzato da un clima temperato, era anche un settore di rilevanza per lo sviluppo delle linee di comunicazione inglesi. Tuttavia, il settimo congresso sionista, tenutosi a Basilea nel 1905, dopo la morte di Herzl, aveva rifiutato la proposta ugandese. C’erano voluti due anni di acceso dibattito, peraltro, poiché la meta palestinese non era intesa da tutti i delegati del movimento come esclusiva e, quindi, risolutiva. Altre ipotesi erano state fatte, tuttavia venendo meno anch’esse nel volgere di poco tempo: il Madagascar, l’Australia, il Canada, la Cirenaica, una parte dell’attuale area irachena nell’ampia regione mesopotamica. Arthur Balfour, nell’incontrare Weizmann, si dovette quindi confrontare con i risultati dell’evoluzione della discussione in ambito sionista. Erano peraltro due figure in ruoli asimmetrici. Il primo rivestiva un ruolo strategico nella determinazione della politica imperiale britannica. Il secondo raccoglieva la prima eredità di Herzl, dovendo mediare tra due percorsi paralleli e, come tali, per nulla convergenti, non almeno in origine: da una parte, infatti, si poneva la questione del consolidamento della presenza ebraica nella Palestina ottomana; dall’altra, la complessa dialettica politica all’interno del movimento politico, che Weizmann doveva rappresentare e portare a sintesi davanti alle autorità del Regno Unito. Per tutta la sua esistenza, non a caso egli si contrappose, in una sorta di diarchia non solo ideologica ma anche esistenziale, a David Ben Gurion, quest’ultimo esponente del sionismo palestinese, essendovi immigrato già nel 1906. Liberale il primo, socialista il secondo; borghese il primo, proletario il secondo; diplomatico il primo, totus politicus il secondo. Due facce di una stessa medaglia ma pur sempre due facce. Weizmann stesso, nelle sue memorie, afferma di avere chiesto ad Arthur Balfour: «supponendo che le offrissi Parigi al posto di Londra, la accetterebbe?» (un’altra versione afferma che abbia domandato «abbandonerebbe Londra per vivere in Saskatchewan?», provincia occidentale del Canada) e alla risposta sorpresa e un poco piccata di quest’ultimo, ossia: «noi inglesi abbiamo da sempre Londra!», l’esponente sionista avrebbe replicato che «è vero, ma noi ebrei abbiamo vissuto a Gerusalemme quando Londra era ancora una palude». L’aneddotica, alimentata dallo stesso Weizmann, riporta poi ulteriori particolari del colloquio, dai quali si desume che a fronte delle obiezioni del leader conservatore («ci sono molti ebrei che pensano come lei?», sottointendendo la minorità del pensare sionista) egli avrebbe quindi risposto: «signor Balfour, evidentemente incontra il tipo sbagliato di ebrei». Weizmann si stava in realtà adoperando in una complessa traiettoria, cercando di valorizzare la «fazione democratica» del movimento sionista, nata nel 1901, durante il quinto congresso sionista, sotto l’influenza di Asher Ginsberg. Il gruppo, animato, tra gli altri, da Martin Buber e Leo Motzkin, intendeva costruire una patria ebraica così come creare una cultura di stampo laico in lingua ebraica. La questione della rigenerazione, intesa come emancipazione non solo dalla condizione di sudditanza determinata dalla società dei non ebrei ma anche da un’inveterata autodipendenza da schemi mentali e di comportamento traslati nel corso del tempo, era alla base di queste posizioni e dei sodalizi umani che intorno ad esse si radicarono. Manchester costituiva per Weizmann la città a partire dalla quale dare corpo all’ipotesi sionista, in rapporto ad una Londra dove la locale comunità ebraica era invece scettica se non indisponibile al movimento politico. Nel 1907 visitò quindi per la prima volta Gerusalemme, impegnandosi nel sostegno alle organizzazioni che si adoperavano nel «lavoro pratico» per la colonizzazione delle terre e nel «Gegenwartsarbeit», il «lavoro al presente», basato sul rafforzamento dell’idea nazionale tra gli ebrei che, pur continuando a vivere nella Diaspora, si sarebbero dovuti adoperare per concorrere alla costruzione di una società ebraica palestinese. Da questo punto di vista, pur continuando a perseguire la sua azione politica e diplomatica, Weizmann riconobbe ben presto che: «uno Stato non può essere creato per decreto ma dalle forze di un popolo e nel corso delle generazioni. Anche se tutti i governi del mondo ci offrissero un paese, sarebbe comunque solo un dono di parole. Ma se il popolo ebraico andrà a costruire la Palestina, lo Stato ebraico diventerà una realtà». Un elemento di accelerazioni di queste dinamiche fu senz’altro la Prima guerra mondiale. Dopo la dichiarazione di guerra da parte del Regno Unito contro l’Impero ottomano, il 5 novembre 1914, il leader sionista incrementò gli sforzi. Weizmann si era peraltro candidato ad indicare al governo britannico quali potessero essere aspetti significativi della politica da seguire nei territori dell’Asia mediterranea, laddove l’antagonista ottomano andava disfacendosi. Tra il 1914 e il 1918 venne quindi tessendo rapporti di ordine politico tra Londra e Parigi così come tra i maggiorenti dell’ebraismo anglo-francese, con la speranza che i secondi potessero influenzare le scelte in divenire da parte della leadership della Triplice Intesa verso i territori palestinesi. Si inquadravano in questo percorso i ripetuti confronti con il banchiere Edmond James de Rothschild, oramai conquistato alla causa sionista, al pari delle relazioni con David Lloyd George, Premier liberale inglese tra il 1916 e il 1922 nonché soprattutto, insieme all’americano Thomas Woodrow Wilson, a Vittorio Emanuele Orlando e a Georges Clemenceau, artefice in prima persona dell’assetto mondiale dopo la fine della Grande guerra. Durante la guerra Chaim Weizmann aveva iniziato a collaborare con Mark Sykes, già esponente del Partito conservatore, militare, diplomatico e membro dell’intelligence britannica. Quest’ultimo faceva parte del Comitato consultivo diretto da Maurice de Bunsen, il cui compito era di consigliare l’esecutivo inglese sugli affari mediorientali. Ben presto Sykes divenne la figura di maggiore rilievo all’interno del gruppo di lavoro, di fatto orientandone i giudizi e, in immediato riflesso, influenzando le scelte del governo di Sua Maestà. In questa veste, fu tra coloro che più e meglio si adoperarono per fomentare le sollevazioni arabe contro gli ottomani, incentivando l’idea che dalla rovina della Sublime Porta sarebbe derivata l’indipendenza per i popoli della regione. La nascita, al Cairo, nel gennaio del 1916 di un Bureau britannico per gli affari arabi, sezione in loco dei servizi segreti londinesi, così come la genesi della bandiera della rivolta antiturca in quella regione, combinazione di verde, rosso, nero e bianco (colori adottati dagli Stati che sarebbero sorti successivamente su quei territori), erano opera del medesimo Sykes. Benché i conservatori inglesi fossero stati, almeno fino alla fine del 1914, favorevoli a Costantinopoli, soprattutto in funzione antirussa (temendo l’espansionismo dell’Impero zarista), con la guerra e poi, nel 1916, con la formazione del dicastero liberale presieduto da Lloyd George, le cose mutarono radicalmente. La Francia, per parte sua, si stava adoperando per assicurarsi il controllo della «Grande Siria», l’Italia aveva avanzato richieste sulle Isole egee mentre la Russia rivendicava la sicurezza per il passaggio del suo naviglio tra il Mar Nero e l’Egeo. In questo quadro, Sykes, che aveva viaggiato in lungo e in largo per il Vicino e Medio Oriente, visitando nel marzo del 1917 anche la Palestina ottomana, si era avvicinato alle richieste sioniste. Weizmann stava cercando in tutti i modi di aggirare l’opposizione ebraica, laddove questa si esprimeva in atteggiamenti dichiaratamente scettici, neutralisti o comunque di accentuata prudenza. Così facendo, sapeva di dovere forzare la volontà, non meno che la mano, dei sionisti palestinesi così come della dirigenza comunitaria londinese. Il rapporto con Sykes si rivelò al riguardo strategico, permettendogli di giocare un ruolo di moral suasion nei riguardi di molti interlocutori e offrendogli la possibilità di divenire una pedina decisiva nel processo decisionale che si stava determinando, passo dopo passo. In una serie vorticosa di incontri e conciliaboli tenutisi a Londra nei primi mesi del 1917 andò quindi delineandosi un quadro di riferimento. Cornice della discussione tra i diversi partecipanti era sia la crescente consapevolezza che la guerra europea era in una condizione di stallo sia che la Russia, parte della Triplice Intesa, stava rischiando il collassamento, con le molteplici, e in parte incalcolabili, conseguenze che ne sarebbero inesorabilmente derivate. La Rivoluzione di febbraio stava lì a dimostrarlo. Weizmann si avvaleva dell’indispensabile collaborazione di Nahum Sokolow, già segretario generale dal 1906 del Congresso sionista mondiale, nei fatti l’esecutivo del movimento sionista, di cui governava dinamiche politiche e percorsi diplomatici. La contrapposizione tra il “sionismo di Manchester”, che intendeva mordere i freni e sfruttare tutte le occasioni possibili per ottenere un riconoscimento politico dai governi dell’Intesa, e le resistenze dell’ebraismo londinese, rappresentato da figure integrazioniste come Moses Gaster o Joseph Cowen, non poteva essere risolta dentro il mondo ebraico medesimo. In questa logica, Weizmann conferì con Robert Cecil di Chelwood, sottosegretario di stato per gli Affari esteri sia sotto il governo Asquith che con Lloyd George, garantendo che la costituzione di una Palestina ebraica avrebbe costituito «una salvaguardia per l’Inghilterra, specialmente per quanto riguarda il canale di Suez». La carta del «protettorato» risultava essere quella più verosimile, almeno nell’immediato. L’incertezza del quadro politico, d’altro canto, non permetteva di spingersi oltre nelle richieste. Per il leader sionista l’ebraismo palestinese poteva confidare di assurgere a soggetto politico solo consolidando l’asse con il Regno Unito, comunque in una evidente condizione di disparità e asimmetria contrattuale. Fu anche così che Weizmann proseguì la tessitura della tela con Balfour, riuscendo infine a fare in modo che la questione fosse posta nell’agenda del «gabinetto di guerra» inglese. La Dichiarazione di volontà britannica, ufficializzata il 2 novembre del 1917, si inscriveva quindi dentro questa complessa partita di ruoli e rapporti, maturati nel corso del tempo, avendo in Weizmann un protagonista essenziale.

Claudio Vercelli

(3 dicembre 2017)