JCiak – Dove abita Il razzismo
Nell’estate del 1957 la famiglia Myers si trasferisce a Levittown, Pennsylvania. Sono i primi afroamericani a insediarsi, con la figlia Lynda, in quel sobborgo che incarna il sogno americano. Lontano dal caos della città, si compone di 17 mila case, giardini e famiglie che si somigliano tutti. È un paradiso middle class ideato da un ebreo figlio di immigrati – William Levitt, magnate leggendario che finirà su Time – dove però non c’è posto per chi è diverso, come scoprono presto i Myers che finiscono al centro di un violento scontro razziale.
La storia, così incredibile da non sembrare vera, arriva al cinema in Suburbicon, da ieri nelle sale, diretto da George Clooney su sceneggiatura dei fratelli Coen, con Matt Damon, Julianne Moore e Oscar Isaac. Black comedy in cui si ride per non piangere, il film racconta le contraddizioni e i paradossi di un passato che non è mai stato così presente.
Appena i Myers, lui ingegnere, lei insegnante, arrivano nella casa al 43 di Deepgreen Lane (acquistata da una famiglia di ebrei), il sobborgo inizia a protestare contro la loro presenza finché la situazione degenera. Intanto, nessuno si rende conto che la violenza più brutale ha devastato la famiglia Lodge (Matt Damon e Julianne Moore che interpreta il ruolo della moglie e della sorella) con conseguenze terribili.
Profilate sullo scenario teoricamente perfetto di Levittown, sobborgo il cui impatto Time paragonò a suo tempo a Venezia e Gerusalemme, le aggressioni ai Myers e ai Lodge hanno un che di surreale. Eppure è lo stesso progetto del sobborgo, replicato in quattro comunità in diverse zone d’America di cui una a Lond Island, a contenere nella sua pretesa di omogeneità il germe di quella violenza.
Il fondatore William Levitt rifiutò sempre di considerare discriminatoria la decisione di vendere le sue case a famiglie bianche e la giustificò in termini meramente commerciali. Il suo obiettivo, disse, era provvedere al fabbisogno di alloggi mantenendo il valore delle proprietà.
“Come ebreo, non c’è spazio nel mio cuore per il pregiudizio razziale”, disse a chi gli chiedeva ragione del rifiuto di vendere ad afroamericani. “La realtà è che la maggior parte dei bianchi preferisce non vivere in comunità miste. È un atteggiamento che può essere moralmente sbagliato e un giorno potrebbe cambiare. Spero sia così”.
Sono parole che lasciano perplessi, soprattutto perché pronunciate in anni che vedono parte significativa del mondo ebraico abbracciare la causa dei diritti civili. Ma il rifiuto del fondatore a vendere anche agli ebrei, nei cui confronti la società americana mostra allora una decisa ostilità, conferma che non è una questione di pelle, ma che a Levittown l’unica legge è il business.
Malgrado ciò nel 1960 la popolazione di Levittown è per un terzo ebrea, un terzo cattolica e un terzo protestante. Quanto ai Myers, nonostante le minacce e la schiacciante prevalenza bianca nel quartiere, i Myers resistono per quattro anni finché, s’immagina con un sospiro di sollievo, un trasferimento di lavoro li porta ad Harrisburg. Anni dopo, messo davanti all’ordine dei giudici di integrare i suoi sobborghi, Levitt preferirà vendere.
Nella sua ironia, Suburbicon è un cupo ritratto d’epoca reso ancor più pessimista dai rimandi al presente e alle continue esplosioni di razzismo che lo funestano. Il regista Clooney non nasconde di trovare molte somiglianze tra quei tempi e l’attualità come del resto tra William Levitt e il presidente Trump, entrambi figli di aggressivi tycoon. “Quando Trump dice facciamo grande l’America si riferisce al periodo di Eisenhower degli anni Cinquanta, che tutti pensano fosse perfetta, con il boom economico”, dice. “Certo, era fantastico se eri bianco ed eterosessuale, altrimenti non proprio. È interessante scoprire cosa succedeva allora; non tutto era rose e fiori in tante parti d’America”.
Daniela Gross