Sionismo e antisionismo
Mentre un anno fa percorrevo al contrario l’Aeroporto Ben Gurion per imbarcarmi sull’aereo per Milano, ero accompagnato alle pareti da una spettacolare esibizione sui 120 di storia del sionismo. Essa terminava poi con una frase virgolettata dove era scritto “Zionism is an infinite ideal”.
Più volte mi sono interrogato sul significato odierno di questa parola, sionismo appunto, senza venirne pienamente a capo. Sia Herzl che Buber concepivano il sionismo sovente in modo utopistico, Israele sarebbe dovuta diventare una sorta di “società modello” redentrice delle altre. Essa invece nella società contemporanea quando non acquista un’accezione tipicamente negativa, assume comunque un significato molto vario e non ben definito, soprattutto per chi vive in diaspora il sionismo è percepito come la difesa dello stato di Israele (al di là dei suoi governi) o della sua natura ebraica, per altri invece ha una connotazione più nostalgica e legata al passato, o ancora di semplice legame emotivo con Israele. Sarebbe però assurdo chiedere a un israeliano se si considera sionista o antisionista al pari di come sarebbe domandare a un italiano se è mazziniano o garibaldino. In Israele infatti, destra radicale a parte, questa etichetta è utilizzata molto più spesso a sinistra per rievocare l’Israele dei padri o per promuovere un percorso di “normalizzazione”.
L’antisionismo poi non avrebbe neppure ragione di esistere oggigiorno, perché l’unico vero antisionismo di cui si dovrebbe parlare in termini storici e politici sarebbe quello anteriore al 1948, interno esclusivamente al mondo ebraico e di matrice bundista o religiosa – i residui del Bund nei congressi avvenuti in Nordamerica dal 1955 pur contestando la sua centralità non negarono l’esistenza di Israele, non diversamente dalla sinistra israeliana di oggi, auspicavano piuttosto una soluzione di pace con i vicini arabi -. L’antisionismo politico attuale non ha quindi un continuum con quello precedente al 1948, e dovrebbe semmai assimilarsi a un più universale anti-nazionalismo, sebbene ciò non avvenga quasi mai. Dibattere quindi ancora dopo settant’anni se sia giusta o sbagliata un’entità ebraica in medio oriente o se si debba considerare Gerusalemme anche parte della storia ebraica e di Israele, finisce più spesso per legittimare e accendere la retorica antisionista, sarebbe quindi preferibile parlare di sionismo in termini culturali e storici che in chiave specificatamente politica, sempre che qualcuno non voglia riconsiderare il sionismo culturale di Buber o quello revisionista della “Grande Israele” (abbandonato ormai dagli stessi revisionisti). Il sionismo è infatti sì un ideale infinito e unico, ma proprio per questo non dovrebbe mai ridursi a una qualunque ideologia nazionalista.
Francesco Moises Bassano
(8 dicembre 2017)