CHANUKKAH 5778 Quale leadership per il popolo ebraico
Durante Chanukkah leggiamo il passo della Torah relativo alla “inaugurazione dell’Altare” (Chanukkat ha-Mizbeach – Bemidbar cap. 7). Protagonisti di questa cerimonia durata più giorni furono i Nessiim, i capitribù. Rashì (a Shemot 35,27 e Bemidbar 7,3) commenta che in questa occasione essi si fecero avanti per primi con le offerte per compensare il fatto che quando si era trattato di raccogliere i materiali per la costruzione del Mishkan essi arrivarono per ultimi. Si limitarono a dire: completeremo alla fine gli eventuali ammanchi. Il popolo, peraltro, fu sollecito nei donativi (Shemot 36,7) al punto che per i Nessiim non ci fu più nulla da portare. Rimasti privi di merito, dimostrarono ora di aver imparato la lezione. I Nessiim sono figure talvolta presentate come ambivalenti già nella Torah stessa. Un versetto proibisce esplicitamente di prendersela con loro al punto di maledirli (Shemot 22,27). Nel quadro dei sacrifici espiatori pubblici è preso in esame il caso in cui “il Nassì trasgredisca” (Wayqrà 4,22) e Sforno commenta: “è normale che trasgredisca”. L’episodio in cui ciò diviene particolarmente evidente è quello degli esploratori, chiamati anch’essi Nessiim (Bemidbar 13,2). Mandati in avanscoperta della Terra d’Israele, ritornarono dieci su dodici con un reportage del tutto scoraggiante per il popolo. Furono tutti puniti con l’esclusione dalla Terra stessa. Avrebbero trascorso quarant’anni nel deserto fino a esaurimento di quella generazione peccatrice: solo i loro figli avrebbero meritato di entrarvi. Lo Zohar spiega che gli esploratori si ribellarono in quanto sapevano che non avrebbero potuto conservare il privilegio di essere Nessiim una volta in Terra d’Israele, ma avrebbero dovuto cederlo ad altri. Meglio a questo punto prolungare il soggiorno di tutti quanti nel deserto – ragionarono – se da questo dipendeva il mantenimento della loro poltrona. Quarant’anni più tardi la Torah ci fornisce i nomi dei nuovi Nessiim incaricati della presa di possesso di Eretz Israel sotto la sovrintendenza di Yehoshua’ (Bemidbar 34, 16-29). Di questi dodici nomi elencati per tribù, i primi tre non sono però accompagnati dal titolo di Nassì a differenza dei successivi: si tratta dei rappresentanti di Yehudah (Kalev), Shim’on e Binyamin (Elidad). Perché? Si può argomentare che si tratta di situazioni speciali. In prospettiva le tribù di Yehudah e Binyamin avrebbero espresso addirittura dei re e fregiare i loro portavoce del semplice titolo di Nassì sarebbe stato riduttivo; Shim’on, d’altronde, era destinata all’estinzione per le sue trasgressioni e il suo capo non avrebbe meritato neppure questo appellativo (Or ha-Chayim). Va osservato che tra i dodici esploratori di un tempo Kalev era stato, insieme a Yehoshua’, l’unico ad andare controcorrente. Preferì affermare il principio che Eretz Israel andava conquistata a costo di rinunciare personalmente al posto di Nassì. Fu ricompensato per questo, nel senso che fu l’unico Nassì della vecchia guardia a figurare anche in questo elenco. Insomma, rimise il titolo ma mantenne il posto. Similmente Elidad (o Eldad) aveva profetizzato che Moshe sarebbe morto e Yehoshua’ avrebbe condotto il popolo nella Terra (Rashì a Bemidbar 11,28). Dotati entrambi di spirito positivo e costruttivo, anteposero il futuro della nazione al meschino interesse personale (Maor wa-Shemesh). Ma soprattutto ci fanno capire che la carica politica non conta nulla se non è effettivamente messa al servizio del bene comune. La festa di Chanukkah è nominata alcune volte nella Mishnah ma non ha un trattato intitolato a suo nome. Una delle ragioni fa riferimento al nostro argomento. I Maccabei, che erano Kohanim e identificavano in quel momento storico il potere religioso, avevano accettato il compromesso con il potere politico, associando al loro ruolo di sacerdoti anche quello di re di Israele. La cosa non trovò gradimento presso i Maestri, i quali avrebbero preferito mantenere la separazione fra i poteri, conformemente alla prescrizione originale della Torah. Il problema del rapporto fra Torah e politica si era già posto molti secoli addietro, ai tempi in cui Yossef era divenuto viceré d’Egitto. Allorché il padre accettò l’invito a lasciare Canaan per raggiungerlo insieme agli altri figli a causa della carestia, Ya- ’aqov si preoccupò per prima cosa di istituire in Egitto una Casa di Studio in cui i suoi figli potessero studiare Torah e preservare l’identità in terra straniera (Rashì a Bereshit 46,28). In un suo scritto Rav Eli’ezer Berkovits, uno dei portavoce più illuminati del Rabbinato americano contemporaneo, scrive che una leadership di tipo politico non può avere l’ultima parola sul nostro destino nazionale. Nessuno nega la sua importanza nell’ambito della lotta per i diritti del mondo ebraico rispetto alla società circostante. Ma non possiamo aspettarci da questo tipo di leader che adoperino i diritti politici acquisiti per favorire la realizzazione dei valori dell’Ebraismo tradizionale. Questo è compito di altri. “Anche oggi, dopo le grandi tragedie degli Ebraismi in Europa, la vera crisi non è politica, ma di natura spirituale. La nostra sopravvivenza è in pericolo non perché un barbaro antisemitismo ha distrutto gli Ebraismi europei, ma principalmente perché l’Ebraismo ha cessato di essere la forza spirituale e la spina dorsale della nazione… In occasione di uno dei primi Congressi sionistici Achad Ha-‘am affermò con baldanza che la nazione ebraica sarà redenta non da politici e diplomatici, ma da Profeti”. Lo scritto di Rav Berkovits da cui sono tratte queste considerazioni (“Towards a Renewed Rabbinic Leadership”) è del 1943.
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, dicembre 2017