Condominio Gerusalemme
Mettiamo il caso di una riunione di condominio che procede, stancamente e noiosamente, da molte ore (anzi, molti decenni), tra periodiche liti e controversie, all’insegna della più assoluta inconcludenza. A un certo punto, in una fase in cui i condòmini, da un bel po’, sembrano sonnecchiare e scambiare messaggini sui cellulari, uno del gruppo, che ha fama di essere arrogante e antipatico (e forse, talvolta, lo sembra veramente), dice di volere affrontare un punto perennemente all’ordine del giorno, e perennemente rinviato. Ma, quando non ha neanche finito di pronunciare queste parole, tutti gli altri, come un sol uomo, cominciano a inveire e a lanciargli improperi di ogni sorta, scatenando una cagnara che scuote il palazzo peggio di un terremoto.
Il giudizio sull’accaduto pare obbligato: se l’antipatico se ne fosse stato zitto e buono, non sarebbe successo nulla, e la tediosa assemblea sarebbe continuata come sempre, tra i soliti sbadigli e i periodici bisticci da cortile.
Credo che il paragone esprima bene il sentimento dell’uomo comune di fronte al parapiglia che sta sconquassando il mondo a seguito alla scandalosissima scelta del Presidente americano: anche chi non sappia assolutamente nulla del Medio Oriente non può non dedurre che è tutta colpa dell’antipatico e arrogante Trump, che ne ha fatta un’altra delle sue, e se ne sono viste le conseguenze.
Ma, tornando alla metafora, come si giudicherebbe la scelta del condomino piantagrane, se si sapesse che il punto che voleva affrontare era una questione di vitale importanza per il condominio, come, per esempio, la messa in sicurezza dello stabile, a concreto rischio di crollo? Punto sempre rinviato da tutti gli altri membri dell’assemblea non perché pensano che il palazzo sia sicuro, ma per il semplice motivo che tendono solo a tirare a campare, non vogliono scucire neanche un centesimo di lavori e, anche se crolla il palazzo, nessuno se ne importa. Se le cose stessero così, il condomino controcorrente, antipatico quanto si vuole, avrebbe ragione.
Ma quale sarebbe, in questo caso, il rischio che Trump avrebbe sventato? Semplice: chi crede che le cose vanno bene così come sono – o, comunque, non potrebbero mai andare meglio -, che non c’è nessun progresso da perseguire sulla strada della pace, e ci si deve rassegnare alla solita strada dell’odio, della guerra e della violenza, per sempre, ha ragione a criticare la scelta americana. Le cose non potranno mai migliorare e, allora, “quieta non movere”. E, in ragione del mio noto pessimismo in materia, è quello che dovrei pensare anch’io. Ma chi invece ritenesse che si debba continuare a operare per cercare di raggiungere, in qualche modo, sia pure tra mille anni, una piccola speranzella di pace, non potrebbe non plaudire alla presa di posizione dell’Amministrazione statunitense, che non fa altro che introdurre un elemento di chiarezza, ribadendo una cosa che dovrebbe essere di una ovvietà assoluta: se si pensa alla pace, lo si può fare in tanti modi, ma a partire da un punto di partenza imprescindibile: la pace dovrà essere con Israele, e non contro di lui, o sulla sua pelle. E fare la pace con Israele non può significare altro che fare la pace con uno stato che ha per capitale Gerusalemme, e non certo perché lo dice Trump, ma semplicemente perché, piaccia o non piaccia, così è.
Il mondo non è d’accordo? Non c’è certo da stupirsene. Sarebbe molto più simpatico, più divertente, più creativo, trasformare il processo di pace in una bella operazione giuridica, estetica e chirurgica attraverso la quale cambiare i connotati a una delle parti in causa, modificandone non solo i minuscoli confini (che sono quelli di uno stato tra i più piccoli al mondo: ma, ovviamente, sono sempre troppo estesi), ma anche la natura, la capitale, i dati anagrafici, la popolazione ecc. E poi, una volta finita l’operazione, dare un attento sguardo critico al risultato ottenuto, per notare, alzando un sopracciglio, che forse si potrebbe ancora apportare qualche ultimo, piccolo ritocco. Si era deciso, per esempio, di comune accordo, che la capitale dello stato da risistemare sarebbe stata collocata fuori dai suoi confini, in Siberia? Forse non va ancora tanto bene, si potrebbe fare di meglio, pensando a un posto un po’ più in là, nella Terra del Fuoco, o in Alaska, chi sa. Proviamo, tanto, poi, si dovrà sempre sentire, per il beneplacito finale, il parere del resto del mondo, il cliente che ha ordinato l’intervento, e che sarà, come si dice, “l’utilizzatore finale” del prodotto. Soddisfatti o rimborsati.
Francesco Lucrezi
(13 dicembre 2017)