Dossier Musei – Pagine Ebraiche
“Esporre bene, grande sfida”
“Non esistono cose belle o brutte. Basta esporle bene”.
Per Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, chiamati a progettare e realizzare il percorso espositivo inaugurale del Meis, le parole di Franco Albini non evocano solo gli anni delle prime esperienze ‘di bottega’ nello studio del celebre architetto e designer milanese, ma hanno soprattutto il sapore perentorio di una linea editoriale cui restare fedeli, di un imperativo deontologico, di un preciso e inderogabile approccio alla professione. E di una sfida quotidiana: “L’architetto museografo deve riuscire a far percepire l’importanza di un quadro, di un oggetto o di un reperto anche quando è apparentemente respingente, perché magari richiede un certo impegno cognitivo – spiega Tortelli – di sicuro è molto più difficile mostrare un coccio di lucerna o un frammento di anfora rispetto alla Gioconda. Ma se non vengono guardati, la colpa è di chi ha pensato male l’allestimento, che resta il principale strumento di comunicazione di un’opera”.
Come mettere a punto, allora, un’esposizione efficace? Lo studio GTRF di Brescia ha fatto tesoro delle lezioni di Albini e del gruppo BBPR, che hanno gettato le basi della moderna museografia in Italia e ancora rappresentano un riferimento inossidabile per gli architetti del settore: “La nostra formazione metodologica, più che tecnica, il modo in cui affrontiamo certi temi e problemi derivano da quella stagione. Ad esempio, rifuggiamo gli effetti speciali – chiarisce Tortelli – perché in genere sono fine a se stessi e distolgono l’attenzione del pubblico dal vero motivo per cui si trova a una mostra o in un museo. Preferiamo mantenere un profilo di sobrietà, commisurata alla situazione. Non ce n’è mai una identica a un’altra e ogni volta si riparte uno po’ da zero. Si attinge ai lavori precedenti e si declina il bagaglio di mestiere, diventando talvolta un po’ archeologi, talvolta un po’ storici dell’arte. Si fanno avanzare di pari passo lo studio e la progettazione, senza perdere di vista le esigenze del committente e immedesimandosi al contempo nel visitatore”. Quanto alla committenza, il Meis ha affidato “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” agli strumenti sartoriali di GTRF attraverso un concorso a inviti, in cui l’agenzia di Brescia si è imposta grazie a un atout decisivo: l’esperienza maturata a Gerusalemme sia nel museo archeologico, situato dove sorgeva la Fortezza Antonia, dimora di Pilato, sia in quello storico, dedicato alla presenza dell’Occidente a Gerusalemme dopo i crociati, attraverso la Custodia di Terra Santa. “Conosciamo bene la distruzione del Tempio, il periodo erodiano, la rivolta e la caduta della città. Perciò non abbiamo faticato ad appassionarci all’argomento della provenienza degli ebrei e della loro diaspora, e a dare risposte allestitive convincenti. Ma sulla carta tutti i progetti sembrano facili…”.
Sì, perché tradurre la proposta di un curatore in un itinerario accattivante è tutt’altro che banale. “Un progetto scientifico detta il metodo, il gusto e il tratto, che sono essenziali, e mette in ordine materiali e temi secondo una propria logica. Poi, però, tutto va calato negli spazi reali che il visitatore frequenterà ed è qui che entra in gioco l’architetto: calibrando la perfetta coerenza e convivenza tra opera e ambiente, e al limite intervenendo su quest’ultimo, visto che non può farlo sugli oggetti”. Le opere, anzi, implicano vincoli spesso strettissimi di conservazione e tutela, prescrizioni dell’ente prestatore, limiti di collocazione. “E nel caso del Meis – aggiunge – essendo la mostra ospitata in un edificio storico, dovevamo comunicare sia il percorso espsitivo che il contenitore, da poco restaurato. Abbiamo così cercato di combinare l’allestimento e la grafica dei testi, degli apparati didattici, delle ricostruzioni di piante e architetture, essendo molti oggetti piccoli e i reperti frammentari, quasi delle schegge di un passato che la storia e l’archeologia hanno restituito. Questo per far capire che anche una piccola lucerna faceva parte di determinati contesti. Allo stesso scopo – prosegue l’architetto – ci siamo spinti per la prima volta a riprodurre due catacombe ebraiche mediante un nuovissimo sistema di trasposizione del colore sull’intonaco, con un effetto mimetico, di verosimiglianza. Abbiamo creato degli spazi immersivi in luoghi o situazioni che non sono qui o non sono più, per far godere l’emozione di scoprirli”. Ecco, dunque, che la creatività trova un’alleata nella tecnologia: “Va comunque governata – ammonisce Tortelli – ma al Meis l’abbiamo impiegata anche nell’evocazione della distruzione del Tempio, dove la drammaticità è resa attraverso suoni, luci e fiamme”. Catturare, insomma, coinvolgere e prendere per mano un pubblico peraltro eterogeneo per età, formazione, background esperienziale e culturale. E se tornerà a casa con la curiosità di saperne di più, tanto meglio.
I grattacapi più grossi li hanno dati, invece, alcune opere di enormi dimensioni, specie il calco in scala 1:1 del fregio di Tito: “Ci è voluto un giorno intero, però alla fine, con la collaborazione di tutti, siamo riusciti a collocarlo esattamente dove doveva stare. Del resto, una mostra riserva sempre sorprese e ostacoli – conclude il museografo – e le soluzioni trovate sul campo, in cantiere, di solito risultano le più calzanti, perché puoi testarle subito. E quando funzionano, realizzi di essere un privilegiato, perché fai un lavoro che ti avvicina a persone, temi, storie e culture che altrimenti, forse, non avresti mai incontrato”.
Daniela Modonesi, dossier Musei – Pagine Ebraiche dicembre 2017
(13 dicembre 2017)