A Ferrara per esplorare l’Albero della Vita
Visitando per la prima volta gli spazi nei quali avremmo allestito la prima parte del percorso espositivo del Meis, mi colpì lo sforzo degli architetti di rispettare la struttura delle ex celle, pur nel tentativo di trasformarle in un ambiente museale vivo. Una sfida doppia, per loro e per noi: aprire un luogo chiuso agli uomini e alla conoscenza. Una sfida molto ebraica. Contando quelle celle, mi accorsi che erano 32. Per l’ebraismo, e per la sua corrente più mistica che è la Qabbalah, si tratta di un numero speciale, perché 32 sono i sentieri dell’Albero della Vita, le 32 vie della sapienza che derivano dallo studio dell’alfabeto ebraico (22 lettere che, secondo la tradizione, furono protagoniste della stessa creazione) e dalle dieci Sefirot, i dieci anelli, le emanazioni, che avvicinano l’uomo a Dio. 32 è anche il valore numerico della parola lev, che in ebraico significa “cuore”. L’indicazione è quella di prendere a cuore le 32 vie della sapienza che derivano dall’alfabeto in cui è stata scritta la Torah e da tutti gli insegnamenti che questa mette a disposizione dell’essere umano.
Quando sono stata prescelta per dirigere il Meis, ho trascorso mesi a chiedere ad altri – persone conosciute, ma anche estranei – quale fosse, secondo loro, la ragione per costruire in Italia un museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah. Le risposte sono state a volte più semplici: “i valori ebraici sono alla base dei nostri valori”, “se vogliamo capire cosa è l’antisemitismo, dobbiamo capire cosa è l’ebraismo”. Altre più raffinate: “Possiamo imparare dagli Ebrei come si fa a vivere nell’incertezza”; “Gli Ebrei hanno praticato prima degli altri la multi-identità, impariamo come si fa”. In certi casi ha prevalso l’ignoranza: “Non ne so nulla, dicono che (gli Ebrei) sono in tanti e se li conosciamo li riconosciamo”. Ho avuto così conferma che questo museo serve. Altri, prima di me, lo hanno intuito, per questo lo hanno voluto e ne hanno gettato le premesse indispensabili, senza le quali non sarei qui. Ringrazio tutti: politici e intellettuali, studiosi, curatori e amministratori, ferraresi e romani. Un grazie immenso e sincero a chi ci sostiene e a chi oggi mi accompagna nel viaggio. In ebraico la parola binah, comprensione, intelligenza, ha la stessa radice (con le lettere bet e nun) della parola binyan, costruzione.
Nella Mishnah, ovvero la legge orale (Neziqin, Pirqê Avot, 2, 15-16), il Rabbino Tarfon dice: “Il giorno è corto, il compito è enorme… Non sta a te finire l’opera, ma non te ne puoi nemmeno sottrarre”. Questo progetto ha tanti padri e madri, prima e dopo di me. Ha però una condizione fondamentale, senza la quale non sarebbe mai nato: prende vita a Ferrara.
Ferrara è uno dei luoghi al mondo, oltre alla Terra di Israele e a Roma, dove si sente fortemente la presenza ebraica. Gli Ebrei vivono a Ferrara da oltre 1000 anni, in continuità e in un naturale scambio con il resto della popolazione. L’ebraismo a Ferrara è nelle cose. Hanno sicuramente contribuito a questo alcuni tra i Duchi d’Este, quando hanno aperto la città agli Ebrei, mentre altri governanti italici – a partire dai papi – chiudevano gli stessi nei ghetti. A Ferrara sono arrivati gli Ebrei romani e quelli siciliani, gli Ebrei tedeschi, i toscani, infine i sefarditi espulsi da Spagna e Portogallo. A Ferrara sono passati e vissuti grandi protagonisti dell’ebraismo, da Itzhak Abrabanel, politico, filosofo e saggio ebreo nato a Lisbona nel 1437, a Donna Gracia Ha Nasi, una coraggiosa mercante ebrea vissuta all’inizio del XVI secolo, da Isacco Lampronti, autore nel Settecento di una antologia talmudica ancora studiata, fino a Theodor Herzl, padre del sionismo moderno, che si fermò a incontrare gli Ebrei ferraresi nell’inverno del 1904. In due momenti cruciali per la storia degli Ebrei in Italia, rabbini dirigenti e dotti si riunirono a Ferrara per decidere cosa fare: nel 1554, dopo l’esplicito appoggio della Chiesa ai Monti di Pietà in sostituzione del prestito minuto esercitato dagli Ebrei, nonché ai violenti attacchi al Talmud; nel 1862, per capire come riorganizzare l’ebraismo italiano dopo l’unificazione. A Ferrara esistono ancora tre sinagoghe, di cui due funzionanti e appena restaurate, e un grande e ameno cimitero ebraico, abbracciato come la città dalla cinta muraria. A Ferrara le vie dell’ex ghetto – che qui durò meno che altrove – sono ancora ebraiche e nel dialetto si usano parole derivate dalla lingua ebraica (come la “zucca barucca”, da baruk, benedetto). A Ferrara c’è purtroppo una lapide in via Mazzini (raccontata anche da Giorgio Bassani) con i nomi degli Ebrei deportati nel 1943. Prima delle persecuzioni nazi-fasciste vivevano qui circa mille Ebrei. Il Meis doveva nascere in un luogo pregno di consapevolezza ebraica.
La missione è, infatti, raccontare l’ebraismo, e in modo particolare la lunga e ricca esperienza degli Ebrei italiani. Il primo segmento del percorso espositivo che inaugura il museo e che viene illustrato in questo catalogo si intitola non a caso “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”. Il MEIS comincia a svelare con questo racconto una vicenda ai più completamente sconosciuta. Una storia sorprendente, dalla quale si evince che l’Italia è stata costruita con gli Ebrei e anche dagli Ebrei. Non è una esperienza di altri: gli Ebrei sono pregni di italianità antica, parte del tessuto del nostro Paese, componente attiva della ricchezza e della forza dell’Italia. Hanno stampato i suoi libri, hanno combattuto nelle sue guerre, hanno creduto nel suo Risorgimento e sono caduti per la sua liberazione. Gli Ebrei sono arrivati nella nostra penisola prima dei Longobardi, dei Normanni, dei Franchi e degli Spagnoli. Prima di tutti loro, gli Ebrei erano già italiani e lavoravano per rendere feconda questa terra, che non a caso in ebraico viene chiamata y tal ya, “l’isola della rugiada divina”. Una mappa dell’Italia che l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha donato al MEIS riporta 700 luoghi di presenza ebraica in tutta la penisola, dalla Sicilia fino al Friuli, dalla Puglia fino al Piemonte.
Una notizia rivelatrice per coloro che incontrano l’esistenza degli Ebrei solo quando si ricorda la loro Shoah, il capitolo più atroce della storia europea. Prima di quella tragedia, si apprende che in Italia ci sono stati due millenni di convivenza, conoscenza reciproca e perfino, tra alti e bassi, costruzione comune.
Il museo che nasce a Ferrara deve parlare pure di discriminazione, segregazione, persecuzione e sterminio, perché, al contrario di quanto in tanti credono, tali ingiustizie sono state inflitte anche agli Ebrei d’Italia. Ferite profonde, inferte spesso per responsabilità e per mano di altri italiani. Ma il Meis non è solo museo di memoria. Si propone piuttosto come luogo di incontro, di scambio e, quindi, di vita. L’obiettivo è diffondere conoscenza e parlare a tutti: italiani e stranieri, esperti e non, giovani e gruppi famigliari, professionisti e turisti. È stato già firmato un protocollo di intesa con il Ministero per l’Istruzione l’Università e la Ricerca: il Meis sarà destinazione riconosciuta anche per l’alternanza scuola/lavoro e per ricerche universitarie.
Infine, apriamo le porte al dialogo: tra religioni, etnie, strati sociali, generazioni e cittadini. Affinché il contributo di una minoranza insegni a conoscersi e a saper costruire assieme mondi da condividere.
L’ebreo ferrarese Corrado Israel De Benedetti, classe 1927, oggi membro di un kibbutz in Israele, fu imprigionato dai fascisti nel carcere di Ferrara in via Piangipane, il 14 novembre del 1943. Lo abbiamo invitato a visitare l’edificio del Meis quando era ancora un cantiere, alla ricerca della sua cella. “Fu in questo luogo – ha detto, arrampicandosi sulle impalcature – che cominciai a pensare di costruire una società più giusta, fondata su valori democratici ed ebraici”.
Simonetta Della Seta, Direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah