MACHSHEVET ISRAEL La cucina e il “pensare ebraicamente”
Nell’introdurre il bel volume collettaneo Ebraismo “al femminile”: percorsi diversi di intellettuali ebree del Novecento (Giuntina 2017, pp. 264) da lei curato, la studiosa Orietta Ombrosi – che anni fa organizzò a Bologna un grande convegno sulla filosofia ebraica – cita Martha Nussbaum, la quale nel saggio L’intelligenza delle emozioni sostiene che la dimensione emotiva va considerata “parte costitutiva del ragionamento filosofico” perché l’universale del concetto, cui ogni filosofia tende, “ha bisogno di nutrirsi del pensiero-esperienza, del pensiero-vita, quindi del singolare, senza però ricadere nell’irrazionalismo né tantomeno prendere le derive del sentimentalismo”.
E’ incontestabile il fatto che anche il pensiero ebraico, come la storia del pensiero mediterraneo ed europeo in generale, sia stato un elaborato prevalentemente maschile. Poche le eccezioni, nel Talmud e nell’epoca moderna. Potremmo dire sia stato più recettivo della voce femminile il Tanakh che i suoi commentatori nei secoli. Ma nel Novecento vi è stata una svolta, variegata e molto esperienziale, ma autenticamente tesa a fondere l’universale (ebraico) con il singolare (ebraico), l’astratto e il concreto, il concetto e la vita. Non è stata un’esaltazione del femminile contro il maschile ma un quasi spontaneo emergere di una sensibilità ‘altra’, meno istituzionale e apologetica (cioè meno tesa ad auto-giustificarsi e auto-difendersi) e, in positivo, più creativa e più eccentrica, capace cioè di cercare altrove, soprattutto negli angoli nascosti della tradizione, uno spazio di libertà e di nuova ermeneutica. A leggerli, questi percorsi – da Else Lasker-Schüler a Nelly Sachs, da Margarete Susman a Rachel Bespaloff, da Hannah Arendt a Sarah Kofman, da Cynthia Ozick ad Agnes Heller, per non citare che alcuni nomi – rivelano l’ebraicità di queste autrici come un ‘dato esistenziale’, quasi narrativo, che non va né giustificato (per timore che venga delegittimato dall’esterno) né sbandierato (per compensare insicurezze interiori) ma soltanto vissuto con passione, articolato nel quotidiano, con testa e cuore congiunti. Certo, non sono tutti percorsi “di successo” in senso mondano, anzi: abbondano le frustrazioni, le incomprensioni, la solitudine… E tuttavia sono percorsi originali, che attestano una dimensione di vita ebraica e alcune sfumature intellettivo-emotive che spesso il pensiero ebraico più citato e ripetuto (al maschile) tende ad ignorare. Non oso parlare di “pensiero ebraico femminile” perché temo di affermare che l’intelligenza sia sessuata, come la libertà è sempre condizionata dalla nostra dimensione corporea, geografica, storica, politica. L’avere relegato il femminile dell’ebraismo nella sfera del domestico (educazione dei bambini piccoli e soprattutto la cucina) più che reprimere il femminile ha spesso impedito ai maschi di vedere il domestico come sfera privilegiata del pensiero.
Sì, la cucina è – può essere – un luogo straordinario del “pensare ebraicamente”: è il luogo in cui si custodisce la kashrut, in cui la Torà si mette in pratica nei dettagli, in cui si prega mentre si agisce, in cui si lavora in silenzio per il bene di altri… e dove si “imita Dio” in uno dei Suoi attributi più strepitosi: “Hu mekhin mazon le-kol briotav asher barà”, Colui che prepara il cibo per tutte le sue creature che ha creato (lo diciamo nella Birkat ha-mazon). Una filosofia ebraica che ignorasse questa dimensione domestica, quotidiana e spesso in mano alle donne, non sarebbe autentica. Una cucina davvero kasher custodisce la tradizione come una seduta in yeshivà e fa politica meglio di molte lamentazioni sull’antisemitismo. Se la ignorano, se si allontanano dalla “cucina” e da ciò che essa rappresenta, i filosofi (maschi) del giudaismo diventano intellettualmente più poveri ed emotivamente più aridi.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI