I bagagli del viaggiatore
Prima di partire per un viaggio, fare i bagagli è indispensabile, anche se non sempre apprezzato. È un’arte non facile, significa lasciare alcune cose e prenderne altre. I viaggiatori più accorti conservano un po’ di spazio in valigia, per poter portare con sé al ritorno qualcosa della terra visitata. Ma fare i bagagli non è soltanto una frettolosa faccenda di indumenti, perché è aspirazione comune, quando si compie un viaggio, tornare più ricchi. Non è comune, in realtà, la capacità durante il viaggio di mettere in discussione le proprie idee, cioè di mettersi in discussione, per modificare oppure confermare i pre-giudizi della partenza e trasformarli così in giudizi. Sempre naturalmente nell’attesa del viaggio successivo, in cui anche questi potranno essere messi in dubbio, accantonati o rinforzati.
“Primavera breve. Viaggio tra i labili confini di Israele e Palestina” (Monitor 2017) è il diario di viaggio di un giovane ricercatore piemontese, Francesco Migliaccio. È già stato presentato alcuni mesi fa dall’Associazione Italia Israele di Torino e verrà nuovamente discusso per iniziativa del Gruppo di Studi Ebraici martedì 19 dicembre alle ore 21 nel centro sociale della Comunità, con la partecipazione dell’autore, di Simone Santoro e mia. Credo che questo testo sia interessante soprattutto perché traccia un percorso: non una linea definita già alla partenza con fulgidi obiettivi, ma un viaggio per “attraversare tutte le frontiere possibili”, come scrive l’autore, per essere straniero. A scanso di fraintendimenti, voglio sottolineare che Francesco parte, come ciascuno di noi d’altronde, con un bagaglio di pre-giudizi, di opinioni e aspettative ancora non messe alla prova dei fatti, opinioni spesso severe nei confronti di Israele. Ma l’onestà e anche la bellezza del suo libro si annida proprio qui, e sgorga dalla capacità di discuterle e discutersi.
“Ho perduto la sicurezza di appartenere alla parte del bene”, scrive Francesco nelle ultime pagine, prima di dedicare un ultimo sguardo a Tel Aviv, “città magnifica per le sue contraddizioni […] città globale che confuta un’idea etnica di democrazia”. Dopo aver trascorso tre mesi in Israele e nei territori contesi tra la Galilea, Gerusalemme, Ramallah e un insediamento ebraico nella valle del Giordano, il ritorno è accompagnato da molti più dubbi di quelli inseriti nel bagaglio alla partenza. Per fortuna nella valigia di Francesco il posto per accoglierli non manca.
Sono convinto che questo libro sia utile per tutti e in modo particolare per chi, da una parte o dall’altra, sembra più impegnato a sbandierare il vessillo immacolato delle proprie convinzioni che a provare a ragionare dialogando con chi ha di fronte. Tra questi anche alcuni di coloro che, in Italia, si dedicano attivamente all’informazione su Israele (hasbarà). Per almeno tre motivi: innanzitutto perché l’informazione non serve per affermare certezze – le proprie – ma per instillare il dubbio, il sospetto, negli interlocutori. Gridare può forse far stare meglio qualcuno, ma non modifica la situazione di una virgola. In secondo luogo perché l’informazione non serve se è rivolta al simile, a chi già è d’accordo o con cui in ogni caso si condivide molto, al componente della medesima tribù; è utile, invece, quando è rivolta all’altro, a chi fa parte di altre tribù, di altri contesti, di altri mondi. Infine, la lettura di “Primavera breve” suggerisce che non voler scendere a compromessi significhi disfare i bagagli prima ancora di partire. Ed è un gran peccato, soprattutto quando si ha già in tasca un biglietto per Tel Aviv.
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei
(14 dicembre 2017)