Dieci motivi per dire no
Il ritorno in Italia della salma del signor Vittorio Emanuele di Savoia, già penultimo re d’Italia per quasi cinquant’anni, poi secolarizzato nella sua qualità di privato cittadino e costretto ad un dovuto esilio (l’articolo XIII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione italiana recita testualmente: «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli») deve rispondere a logiche puramente personali, senza stare neanche a scomodare un qualche non meglio precisato “diritto umanitario” di cui non si vede alcuna motivazione né, tanto meno, un’eventuale urgenza. Sul piano legislativo le disposizioni costituzionali – che permangono nella loro incontrovertibile validità – sono state integrate dall’articolo 1 della legge costituzionale numero 1 del 23 ottobre 2002, la quale stabilisce che: «I commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione esauriscono i loro effetti a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale». In altre parole, vivi e morti della famiglia Savoia, possono ora entrare nel territorio del nostro Paese. Dopo di che, al netto dei fatti di questi giorni, tra i motivi del persistente rifiuto civile e morale rispetto ad una qualsiasi riconsiderazione storica della figura del signor Savoia in questione, una decina almeno d’essi vengono da subito in mente. Ci piace elencarli, per rinfrescarcene ancora una volta la memoria, peraltro vivida:
nella sua “professione” di re e di «imperatore d’Etiopia», avallò politicamente, sottoscrisse giuridicamente e legittimò istituzionalmente le normative anti-ebraiche, introdotte ed applicate dal 1938 in poi;
ciò facendo, oltre a porre le premesse legali (ancorché moralmente e umanamente illegittime) per la persecuzione e l’assassinio di diversi connazionali (e non solo), introdusse il criterio della revocabilità della cittadinanza: chi era colpito dagli effetti delle leggi razziali e razziste, infatti, era un “regnicolo” a metà, un suddito, spogliato di diritti (e averi), in attesa di un qualche futuro trattamento che gli sarebbe precipitato addosso, e non un emancipato in grado di autodeterminarsi;
nel ruolo conferitogli dal già citato mestiere (non si dica poi che i lavori si equivalgono), fu parte “attiva ed operante” nell’aprire al fascismo le porte del Paese, concorrendo alla sua trasformazione in regime dittatoriale e liberticida;
tacque, quando invece occorreva un autorevole pronunciamento, dinanzi allo sconcerto prima, poi allo scempio umano e politico, causato nel (e al) Paese dall’assassinio di Giacomo Matteotti, rivendicato platealmente da Mussolini;
fu moralmente corresponsabile, anche per il tramite di quei generali la cui fedeltà era riposta perlopiù verso la corona e non direttamente nei riguardi del fascismo-regime, delle ripetute nequizie che diverse unità del Regio esercito, oltre che della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (riconosciuta come Forza armata da un Regio decreto nel 1923), consumarono ai danni delle popolazioni locali durante le campagne coloniali e nel corso dell’occupazione dei territori sloveni così come dell’Europa dell’Est;
avallò la sciagurata alleanza con la Germania, voluta dal fascismo e destinata a fare collassare l’intero Paese nel volgere di poco tempo;
fu politicamente corresponsabile della disastrosa e cialtronesca impreparazione con la quale le Forze armate italiane furono precipitate nel Secondo conflitto mondiale. Sapeva e taceva, condividendo spregiudicati calcoli d’interesse che trasformarono una tattica da operetta in una strategia della disfatta;
l’8 settembre 1943 abbandonò la Nazione intera ad un destino che pareva non appartenergli. Non gli si vuole rinfacciare la scelta di abbandonare furtivamente Roma ma la chiara e patente volontà di preservare se stesso dalla reazione tedesca, a prescindere da tutto il resto. Stesso discorso per l’istituzione monarchica che, evidentemente, doveva continuare a sussistere, indipendentemente dall’esistenza o meno degli italiani. Come giudicare un padre che, per salvare se stesso, abbandona i suoi figli? Come valutare il comandante di una nave che per primo scappa, dinanzi al possibile naufragio?
agì come esponente di un vero e proprio “gruppo d’interesse”, ed ancora una volta non come la più alta espressione dell’unità nazionale, nella scellerata decisione di non dare indicazione alcuna alle truppe italiane sul da farsi rispetto allo sbandamento immediatamente successivo alla lettura in radio, da parte di un refrattario Pietro Badoglio, della dichiarazione d’armistizio con gli Alleati angloamericani. Da ciò, centinaia di migliaia di giovani abbandonati a sé, poi costretti nei campi di internamento e di concentramento e in parte peritivi;
Infine, in tutta franchezza, non ci interessano le vicende private di quel che resta della salma di un uomo. Vorremmo poter dimenticare il suo tempo, quando invece non possiamo dimenticare ciò che fece (oppure omise di fare) nel corso di questo. Poteva essere ricordato come un buon sovrano, vorremmo sentirne parlare esclusivamente come di un privato cittadino. Il resto è solo una sgradevole messinscena, che promana squallore nel momento stesso in cui parla di “diritti”, di “pacificazione”, di “inutili rancori”, di “tempo trascorso”, di “pietà umana” e cos’altro. La memoria non cade in prescrizione.
Claudio Vercelli
(18 dicembre 2017)