ARTE “Il mio disagio diventa creazione”

Gal WeinsteinIn occasione della cinquantasettesima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia è stato Gal Weinstein a occupare il padiglione israeliano con una installazione allo stesso tempo ironica e polemica, pessimista e speranzosa, a cura di Tami Katz-Freiman. È stanchissimo, frastornato e forse un po’ sorpreso dal successo che sta riscuotendo, come attesta la lunga fila di persone che si accalcano per accedere al padiglione. A differenza del predecessore Tsibi Geva che aveva completamente rivestito l’esterno del Padiglione con copertoni, Weinstein riserva tutte le sorprese all’interno. Pur se la messa in discussione dei presupposti progettuali di Zeev Rechter, l’artefice del Padiglione, è parimenti radicale.

All’asettica modernità di stampo Bauhaus dell’edifico, frutto di una visione ottimista e progressista dell’architettura, come reagisci?

Ho provato una strana sensazione, una sorta di disagio, come un gap tra la vita quotidiana che vive oggi lo stato d’Israele e l’ambizione progettuale degli anni ’50, quando il padiglione è stato realizzato. Credo che questo padiglione non rappresenti più l’attuale Israele, anche per la sua dimensione troppo piccola. Allora l’ambizione progettuale si accompagnava a quella di costruire un paese che fosse al passo con il mondo occidentale, moderno, progressista, umanista, razionalista. È come quando una persona mette sul passaporto una foto da giovane e col passare degli anni non è più riconoscibile.

Come hai cercato di rappresentare questo gap?

In due modi. Creando all’interno del Padiglione un senso di trascuratezza, di abbandono dovuto di trascorrere del tempo, in stridente contrasto con la nitidezza dell’esterno e il fulgore della bandiera. Ho ricoperto le pareti e il pavimento con lana di acciaio che, trattata con sostanze quali diet coke e aceto balsamico, si arrugginisce creando l’effetto desiderato. Il secondo aspetto riguarda il mio lavoro: ho ripreso praticamente tutti i temi affrontati precedentemente, dalla Jezreel Valley al fumo alla decorazione, ma ho fatto in modo che anche su di essi fosse visibile il passaggio del tempo. Jezreel Valley, ad esempio, un’icona del sionismo, strappata negli anni Venti alla palude, era stata realizzata nel 2002 da Weinstein come un puzzle di pezzi di moquette i cui colori echeggiavano quelli originari. La versione odierna “in the dark” è invece un puzzle di contenitori irregolari la cui forma riprende quella degli appezzamenti della Valle, dove ho versato caffè e zucchero: all’odore gradevole del caffè si associa l’immagine delle spore di muffa che pullulano sulla superficie comunicando un senso di putrefazione, quasi la vecchia palude avesse ripreso il sopravvento. Da un lato, cioè, metto a confronto la mia biografia con quella di Israele, accomunate dal degrado prodotto dal passaggio del tempo, dall’altro però è come se fossi spinto da una estrema volontà di controllare il tempo. Sia la ruggine sia la muffa, infatti, non sono ottenute attraverso un processo di trasformazione naturale della materia ma per l’aggiunta di sostanze che generano l’effetto voluto nei tempi voluti. Anche se poi i processi naturali continuano a svolgersi indipendentemente dalla mia volontà.

C’è insomma una ironica contraddizione tra il voler sottolineare il passaggio del tempo impiegando i tuoi materiali consueti come lana d’acciaio, di bronzo, feltro, coca- cola e aceto balsamico e il volerlo fermare. Il titolo della mostra del resto, “Sun Stand Still”, suggerisce proprio quest’ultimo aspetto. Perché un titolo così evocativo?

Si tratta dell’invocazione rivolta da Giosuè al Signore perché fermi il sole e gli consenta di vincere la battaglia contro il re di Canaan. Un miracolo che prova come il tempo si possa effettivamente fermare. Una intera parete del Padiglione è occupata proprio dalla rappresentazione, con paglietta d’acciaio e lana, del paesaggio della Ayalon Valley dove avvenne il miracolo, presa dal volume “Sulle tracce di Mosè” pubblicato nel 1973.

In “Enlightment” invece, il video proiettato su una delle pareti in rovina del Padiglione, l’immagine di un cervello realizzato con la bambagia appare all’improvviso, come un’illuminazione. Appiccando il fuoco alla bambagia, le fiamme divorano il cervello nel momento stesso in cui lo rivelano.

In questo caso l’ambizione è quella di controllare il fuoco, quasi di guidarlo nel percorrere le linee che disegnano il cervello. Anche il caffè, del resto, che è per sua natura liquido e tende ad espandersi, qui viene contenuto nelle vaschette. Anche nel piano superiore, “El Al” è un paradosso: materializza infatti, in una nuvola, in un groviglio di fibra acrilica trattata con la grafite, l’attimo in cui il fumo si sprigiona dal missile immediatamente dopo il lancio.

Come ha avuto luogo la preparazione della mostra? Quanto tempo sei stato a Venezia?

In realtà, a parte “Jezreel Valley in the Dark”, “Marble Sun” ed “El Al”, che sono stati prodotti a Venezia, i lavori a parete e al pavimento sono stati tutti realizzati a Tel Aviv nel corso di sei mesi, con la collaborazione di 7 assistenti che hanno lavorato 7 giorni su 7, giorno e notte. I pannelli sono stati quindi trasportati e montati a Venezia. Ho insomma costruito un padiglione all’interno del padiglione. Un po’ come quando vai all’Ikea, compri i pezzi dei mobili e te li monti a casa.

Weinstein, che ha studiato al Bezalel con Nahum Tevet, l’artista israeliano noto per i suoi assemblaggi di oggetti ready-made, è allo stesso tempo pittore e scultore ma senza ricorrere mai agli strumenti canonici delle due discipline. Niente matite, pennelli e colori ma materiali poveri, di uso comune, nient’affatto accattivanti. Così, se da lontano le opere appaiono quadri o affreschi, da vicino se ne coglie la natura materiale e ready- made. A differenza di quanto accade in altri luoghi espositivi, noto che qui la gente si avvicina ai lavori e addirittura li tocca, senza essere allontanata. Sembra quasi che tu voglia incoraggiare questo comportamento.

È proprio così, per me il senso del tatto è fondamentale, conoscere toccando, come fanno i bambini. È solo avvicinandosi infatti che si capisce di che materiali è fatto il lavoro. Penso all’opera “L’incredulità di S.Tommaso” di Caravaggio dove il Santo infila il dito nel costato di Cristo per verificare quanto è profonda la ferita.

Una parete è occupata da un motivo decorativo astratto, anch’esso in lana d’acciaio che, sulle prime, da lontano, sembra una carta da parati un po’ sbiadita e usurata.

Anche la decorazione è un tema sul quale ho già lavorato. Qui, nel Padiglione, è di nuovo un elemento di contraddizione con il motto modernista di Adolf Loos: “L’ornamento è delitto”. E poi c’è l’altro aspetto molto importante legato all’astrazione. Noto che spesso negli artisti la scelta astratta è una sorta di punto di arrivo, di superamento della fase figurativa, una via senza ritorno, una cesura rispetto all’esperienza precedente. Per me invece è un momento di passaggio del lavoro. Quando le forme con il tempo si degradano e disfano sono meno definite, dunque più astratte. È un processo insito in ogni lavoro, non una fase storica del lavoro.

Abbiamo nominato “Marble Sun”, il lavoro che si trova nel cortile esterno del Padiglione.

È la ricostruzione, attraverso un puzzle di marmi di Carrara, la cui gradazione vira dal beige al grigio, di Nahalal, il primo villaggio socialista fondato dagli immigrati all’inizio del XX secolo. Progettato da Richard Kaufmann, era il simbolo di una società utopistica ed egualitaria: l’anello esterno dedicato alla produzione agricola, quello interno alle abitazioni degli agricoltori e, al centro, gli uffici pubblici. Anche su questo tema simbolico, ho realizzato due versioni che riflettono due condizioni diverse del paese: la prima, nel 2005, era in erba artificiale e moquette, mentre quella odierna è in marmo, il materiale dei monumenti e dei memoriali, quasi un monumento alla memoria dell’utopia socialista.

Inevitabile la domanda sulla relazione tra il lavoro e la politica israeliana.

Non è così diretto, rispondo diplomaticamente. Viviamo una realtà così intensa e complessa di cui non possiamo certo non tener conto quando facciamo arte. Io ad esempio lavoro su alcune icone come appunto la Jezreel Valley o Nahalal e, nel modo di rappresentarle, esprimo il mio pensiero sui cambiamenti intervenuti in questo paese. Cambiamenti che non esprimono certo una visione ottimistica e rassicurante…

Adachiara Zevi, Pagine Ebraiche, dicembre 2017