Gli ebrei e l’esperienza mistica,
nel Talmud il punto di partenza
“Non vivremo questa sera un’esperienza mistica. Iniziamo a sgombrare il campo da possibili equivoci su cosa sia la mistica ebraica”. Con questa affermazione ironica e paradossale, ma al tempo stesso sintetica di tutta la riflessione successiva, rav Benedetto Carucci Viterbi ha aperto il suo seminario “Vivere l’esperienza mistica”, che è parte del ciclo “Il popolo dei libri. Un viaggio attraverso i testi della tradizione ebraica”. Iniziativa che, da maggio 2017, si sta svolgendo mensilmente, presso il Centro Bibliografico Tullia Zevi, con l’obiettivo di fornire strumenti metodologici e chiavi di orientamento in questa vasta letteratura e sottolineare come lo studio e l’interpretazione attiva, individuale e al tempo stesso collettiva di questi testi, di generazione in generazione, costituiscano un elemento fondante della vita e della spiritualità ebraica.
È possibile individuare tratti caratteristici dell’esperienza mistica ebraica? Oppure declinare la mistica in genere secondo parametri specifici finisce per diventare una contraddizione in termini? Se il raggiungimento di un rapporto diretto con Dio è la finalità di qualsiasi esperienza mistica, l’introduzione di connotati culturali e religiosi specifici non rischia infatti di interporre in questo contatto una mediazione? Secondo rav Carucci non vi è in ciò alcuna contraddizione o svilimento della mistica: ogni tradizione ricorre necessariamente alle proprie categorie religiose e culturali per entrare in rapporto diretto con Dio.
A smentita di una superficiale ma consolidata vulgata che ha considerato la mistica ebraica come folklore popolare ed eterodosso, rav Carucci ha mostrato – sulla scia di Gershom Scholem, pioniere degli studi sulla Cabbalà e della sua valorizzazione – come essa si inserisca senza soluzione di continuità all’interno della tradizione, incardinandosi rigorosamente al suo interno e a sua volta fecondandola. Per entrare nel mondo della mistica, infatti, proprio dal Talmud bisogna partire e rav Carucci ha scelto la Mishnà del II capitolo del trattato Chagigà – tra i più normativi di questa letteratura – al fine di indicare una delle prime paradossali caratteristiche della mistica ebraica nella quale la libertà, propria del rapporto mistico col divino, non è in contraddizione con la razionalità normativa, ma ad essa profondamente connessa. Il pensiero mistico del filosofo medievale Abraham ben Samuel Abulafia è profondamente influenzato dall’opera di Maimonide, il più grande razionalista aristotelico del pensiero ebraico. In particolare Abulafia elabora un metodo di scioglimento dei vincoli materiali e di elevazione spirituale, attraverso la meditazione sul nome di Dio, a partire dall’idea maimonidea di profezia come congiunzione tra intelletto individuale e intelletto agente. Persino Sabatai Zevi, mistico cabalista e falso messia del XVII secolo, fa appello alla trasgressione delle mitzvoth, ma teorizzandola essa stessa come precetto, restando quindi, pur nel ribaltamento, completamente all’interno della tradizione halakhica. Questi sono solo alcuni dei molteplici paradossi che rav Carucci ha illustrato come caratteristici della tradizione mistica ebraica.
La Mishnà esorta a non studiare “le relazioni proibite in tre, l’Opera della creazione in due, il Carro [la visione di Ezechiele] da soli”: ci avverte che alcune conoscenze sono difficili, rischiose, necessitano riservatezza, limiti e cautele particolari, la guida di un Maestro e la trasmissione da Maestro ad allievo. Proprio da questa Mishnà derivano i due principali filoni del pensiero mistico ebraico: la tradizione ascensionale, più esperienziale ed emotiva, della Ma’aseh Merkavà, che dall’uomo cerca di arrivare alla contemplazione del divino, e quella teosofica, più complessa, pericolosa e intellettuale, della Ma’aseh Bereshit, che indaga una sorta di topografia e dinamica interna al divino e il modo in cui da Dio deriva l’altro da Sé, la creazione, attraverso le sefiroth e le lettere, e qual è la loro modalità di relazione.
Sempre nel trattato Chagigà leggiamo il famoso brano che narra i pericoli connessi all’ascesa mistica: “Cosi hanno insegnato i nostri saggi: quattro persone sono entrate nel Pardes: Ben Azai, Ben Zoma, Acher – che significa “altro” – e Rabbi Akiva. Rabbi Akiva disse loro: quando arriverete alle pietre di marmo bianco non dite: acqua! Acqua!, dato che è scritto: colui che dice menzogne non potrà stare davanti ai miei occhi. Ben Azai sbirciò e morì, e di lui si dice: preziosa agli occhi di Dio è la morte dei suoi pii. Ben Zoma sbirciò e impazzì, e di lui si dice: hai trovato miele, mangiane con attenzione, affinché non ti sazi e venga a vomitarne. Acher si mise a tagliare le radici [e cioè rinnegò l’ebraismo e per questo diventò “Acher”, “Altro”]. Rabbi Akiva uscì in pace.”
“Pardes” significa giardino, frutteto, ma nella tradizione esegetica è anche la sigla con cui si indicano i quattro livelli di lettura della Torà: Pshat (letterale), Remez (allusivo, simbolico), Drash (che sollecita il testo a significare al di là del versetto), Sod (segreto, mistico).
Entrare nel Pardes significa dunque, al tempo stesso, ascendere verso un rapporto diretto con Dio, vedere la Shekinà (come suggerisce Rashì nel suo commento a questo brano) e addentrarsi nella struttura complessa e stratificata della Torà, attraverso la pluralità dei suoi metodi interpretativi. E con questo approdiamo a un altro paradosso della tradizione mistica ebraica che ne rivela anche lo stretto rapporto di continuità con la tradizione ebraica in genere: la visione mistica, diretta, immediata col divino non può prescindere dalla mediazione della Torà e dello studio complesso di tutti i suoi diversi livelli di significato e di interpretazione. L’esperienza mistica va maneggiata con estrema cautela e adeguata preparazione. Senza questa mediazione si rischia l’abbaglio di confondere il marmo per acqua, la propria parziale visione per Dio, e si finisce per morire, impazzire o recidere il legame con la tradizione e diventare “Acher”, l’altro per eccellenza, l’alieno, l’idolatra. Lo studio della Torà resta dunque passaggio obbligato anche della mistica. Solo Rabbi Akiva che è consapevole del rischio della polisemia del senso e del confine sottile tra vero e falso, idolo e Dio unico, non ha la presunzione di fare a meno della mediazione della tradizione e del ruolo fondamentale da essa attribuita allo studio, all’interpretazione e alla capacità di distinzione, entra ed esce in pace dal Pardes.
Come sostiene Scholem, l’esperienza mistica ebraica non è mai fusionale, ma – ulteriore paradosso – conserva sempre un margine di distanza fra il mistico e l’oggetto di contemplazione. In questo modo, anche nella seconda tradizione mistica della Ma’aseh Bereshit, nella quale si osa addirittura addentrarsi in una riflessione sulla struttura stessa del divino, l’unicità – nel doppio senso di unico e non composito al suo interno – così come la trascendenza e l’irrappresentabilità di Dio, condizioni imprescindibili del rigoroso monoteismo ebraico, sono preservate da un paradossale e complesso rapporto di luci e ombre che disvelano e al tempo stesso nascondono. Paradosso che (mi permetto qui di mettere in relazione le riflessioni di rav Carucci con gli insegnamenti ricevuti dal mio maestro Emilio Garroni, filosofo, studioso di Kant, in particolare dal suo saggio Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, 1995) è la condizione stessa della vita e dell’esperienza umana che ha bisogno di attingere ad una inesauribile fonte di senso, sempre da declinare nuovamente e diversamente in specifici significati umani che non vanno però confusi con la fonte stessa da cui scaturiscono. Dio nell’ebraismo e nella sua mistica accetta di vestirsi di abiti umani per entrare in relazione con le sue creature, a condizione che il loro rapporto amoroso – molteplici sono le metafore erotiche che leggiamo nello Zohar, il più importante libro della mistica ebraica – resti rispettoso della incolmabile distanza.
Tramite questa stessa consapevolezza di una fonte di senso divina che non si confonde e non si assolutizza nei significati particolari umani, la stessa mistica ci fornisce – manifestando fra l’altro una modernissima concezione del linguaggio – la chiave per risolvere una difficile questione che si apre nella tradizione ebraica: se il mondo futuro sarà del tutto spirituale come faremo a mettere ancora in pratica le mitzvoth che sono riferite al nostro rapporto con il mondo materiale? Ma la Torà, costituita principalmente da mitzvoth, è eterna e quindi deve valere anche per il mondo futuro. Per i mistici è solo una convenzione, valida per questo mondo, leggere la stringa di segni nelle parole e nelle mitzvoth che leggiamo ora. Nel mondo futuro quegli stessi segni verranno letti nella sequenza dei Nomi di Dio che ne costituiscono il senso profondo.
Raffaella Di Castro
(22 dicembre 2017)