Saggistica – Dal diritto ebraico alle Costituzioni americane
Lucia Corso / DUE VOLTI DEL DIRITTO: ELITE E UOMO COMUNE NEL COSTITUZIONALISMO AMERICANO / Giappichelli
Lucia Corso, formatasi alla scuola giusfilosofica di Francesco Viola, si è da sempre interessata ai rapporti tra diritto, religione e politica dedicando la tesi, rispettivamente di laurea e di dottorato, alle radici religiose del sionismo e del costituzionalismo americano. Oggi docente di filosofia del diritto all’Università degli Studi di Enna “Kore” è attualmente impegnata nella redazione della sezione “diritto naturale nel Medioevo” per la voce “Diritto naturale” dell’Enciclopedia Springer.
Professoressa, quali sono le ragioni del suo interesse, da filosofa del diritto, per il fenomeno religioso? E come mai ha scelto di occuparsi di ebraismo e protestantesimo?
Questo interesse nacque già gli anni universitari. La prima materia che ho studiato è stata filosofia del diritto, per cui il primo approccio al diritto è sempre stato di tipo speculativo, accanto a questo ho sempre avuto l’idea di fondo per cui ci fosse una linea di continuità tra norma religiosa e norma giuridica. Il pensiero ebraico in fondo è la tradizione che meglio esprime questo collegamento forse anche senza problematizzarlo. L’interesse per esperienze religiose diverse dalla tradizione cattolica (in cui sono cresciuta) forse è dovuta a tre idee (o inconsapevoli impulsi) che non mi hanno abbandonato negli ultimi 25 anni. Provo a riassumertele così: la realtà si comprende a partire dalla legge (e cioè dall’ordine dato dalle parole); le grandi religioni sono delle potenti lenti di ingrandimento dell’essenza della legge perché ne segnalano chi un aspetto e chi un altro; l’ordine – e cioè la legge – non è solo un fenomeno esteriore (uno strumento che consente la coesistenza pacifica), ma è costitutivo della nostra identità.
Dunque la norma, a prescindere se distinta in ‘religiosa’ o ‘giuridica’, risponderebbe a un bisogno di ordine. Proprio di fronte al moltiplicarsi delle interpretazioni, però, si può avere la sensazione di cacofonia, di confusione. Le due cose sono in contraddizione?
Vi è il bisogno di creare una realtà che funziona, ma l’aspetto interpretativo prescinde dal risultato pratico: ad esempio nel Talmud, per le conoscenze che ho della materia, si può discutere sulle norme del sacrificio [del Tempio anche dopo la sua distruzione] oppure, nel contesto statunitense, un giudice può allegare un’opinione concorrente, ovverosia una motivazione alternativa, all’opinione di maggioranza. Vi è quasi un bisogno di pulizia complessiva, a prescindere dalle ricadute effettive. Il bisogno è quindi di mettere le cose in ordine, piuttosto che di arrivare a una situazione statica di ordine; in questo senso la discussione giuridica, così come quella talmudica, non finisce mai: perché il bisogno di creare questo ordine non finisce mai. Questa esigenza è tipica delle discipline argomentative, ma anche dell’uomo in generale: è come quando si ha bisogno di ordinare la casa, e si prova sollievo a farlo. Forse vi è sotteso il bisogno di una presa sul mondo che ci circonda ma, appunto, in maniera non definitiva, altrimenti quello stesso bisogno, di fronte a un ordine completo, cesserebbe.
Nel suo lavoro di tesi, da cui è nato poi un articolo per la Rivista internazionale di Filosofia del diritto e la redazione della voce “sionismo” per l’Enciclopedia Filosofica Bompiani, ha indagato il rapporto tra categorie religiose e politiche nel sionismo. Quali erano le domande di filosofia del diritto che animavano questa indagine?
La tesi era strutturata così: che ruolo ha il territorio tra gli elementi costitutivi dello stato? La nostra dottrina costituzionalista sostiene che vi sono tre elementi costitutivi: a) popolo; b) governo; c) territorio. Sul popolo ci possono essere o la concezione formalistica kelseniana secondo cui è una costruzione giuridica, o la concezione sostanzialista alla Carl Schmitt e così via; sul governo vi sono le teorie del governo, mentre invece sul territorio non c’è nulla perché in linea di massima è un elemento dato per scontato. Quindi la mia tesi era: può esistere un’elaborazione a monte sul perché un certo territorio piuttosto che un altro? Da qui derivava l’analisi delle varie giustificazioni: una prima giustificazione era quella laica dell’acquisizione che quindi passava attraverso le categorie del diritto privato; l’altra concezione era quella pragmatica: quale territorio conviene? La Palestina del mandato britannico o un appezzamento in Africa (e così via)? Altra concezione era quella riformatrice, su base culturale: la scelta di un luogo per nuove sperimentazioni alla luce degli insegnamenti ricevuti dalla tradizione: l’idea che tutti i beni siano in comune e l’idea che il diritto al territorio nasca dal comportarsi in un certo modo sia nei confronti dei propri figli che nei confronti della terra, questo per esempio era l’atteggiamento di M. Buber ma anche dei kibutzknim; infine l’idea che si potesse essere pienamente ebrei soltanto all’interno di certi confini. Il sionismo ha una sua peculiarità rispetto agli altri nazionalismo a lui coevi poiché doveva elaborare alcuni elementi che nei nazionalismi tardo ottocenteschi erano dati per scontati come per esempio il luogo in cui fare nascere uno stato. In tal senso il rapporto con il territorio è sempre mediato da una dimensione culturale e religiosa.
Tuttavia tanto esponenti del sionismo culturale quali Buber quanto le correnti socialiste del sionismo erano in rivolta contro l’ebraismo tradizionale.
Il sionismo in questo senso è legato, lo dico in termini blandi, a una visione rivoluzionaria, sia dal punto di vista culturale e sociale: la riscoperta del misticismo ebraico, del hassidismo, la dimensione anche narrativa dell’aspetto religioso, e poi le teorie socialiste.
Nel prosieguo della sua ricerca ha continuato a occuparsi del rapporto tra diritto, politica e religione spostandosi però negli Stati Uniti.
Sì, in particolare in riferimento al pensiero dei coloni del New England del 1600 che redigevano delle proprie e vere costituzioni. Ecco, quello del patto è un leitmotiv delle mie analisi; o meglio, mi interessa il rapporto che esiste tra una dimensione contrattualista e una dimensione di non-scelta, quale l’appartenenza a un determinato popolo. Anche in ambito ebraico riscontro questa ambivalenza originaria. C’è il patto: ma è un patto cui si può non aderire? Vi è una dimensione normativa che definisce la tua identità e poi, invece, una dimensione normativa su cui rifletti e che sei invitato a sviluppare. Vi è una riflessione analoga nei coloni delle prime spedizioni in New England.
In questa riflessione sulla dialettica tra il singolo e la collettività, tra dimensione normativa che fonda le nostre identità e dimensione di significato cui siamo chiamati a partecipare, viene in mente l’opera di Robert Cover.
Una delle tesi di Cover è che il diritto ‘modera’ la violenza. Certo, il diritto ha sempre una dimensione “jurispathic”, come lui la definisce, ovverosia di decisione, di chiusura della discussione. Ma la dimensione Jurispathic del diritto si dà per Cover sempre nel breve periodo, mentre invece secondo la nostra dottrina giuridica la forza autoritativa del diritto è data dall’esistenza di una dimensione finale, la cui irrevocabilità prescinde dal contenuto: la funzione nomofilattica, il vincolo del precedente, la sentenza di corte costituzionale. Invece l’approccio di Cover sottolinea come tali decisioni non siano definitive, poiché può cambiare l’orientamento del gruppo sociale di riferimento, oppure un gruppo che prima prevaleva ora retrocede.
In questo senso l’attenzione viene riposta sull’effettività piuttosto che sulla validità della norma. Pur con grandi differenze si può notare come anche nella tradizione ebraica si sottolinei come la decisione maggioritaria della dottrina non sia esaustiva del diritto.
Sì, vi è un’apertura al vertice. Nel caso del costituzionalismo popolare tale apertura è rivolta al senso comune. Mentre il nostro costituzionalismo si fonda su quell’idea che più in alto vai più garanzie ricevi, nella concezione di Cover il vertice è privato di questa funzione autoritativa, che ricade invece su un allineamento effettivo delle persone. Nella dottrina talmudica abbiamo l’idea di due scuole, entrambe con un loro portato di verità: questo perché l’uno non è terreno, il due, la bet di bereshit, è terrena. Non è detto che avere, come nella concezione cattolica, una voce finale sia necessariamente un elemento di garanzia.
Tema fondamentale dell’opera di Cover è poi quello del rapporto tra legge e narrazione, da cui il titolo della sua opera più celebre “Nomos and Narrative”…
Prima parlavamo della rivolta del sionismo culturale contro un certo ebraismo tradizionale, ma non è una vera e propria rivolta. Diciamo che è un tentativo di riportare la parte più trascurata della tradizione. La norma è importante, diremo però con Cover che occorre saper leggere la ‘storia’. Questo è un tema difficile: non è che la storia debba smentire il precetto, piuttosto ti permette di capire qual è il senso vero del precetto.
Cosimo Nicolini Coen, Pagine Ebraiche, dicembre 2017